Giorno per giorno – 14 Agosto 2016

Carissimi,
“Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12, 51-53). Il vangelo di oggi era tutto un vangelo gridato. Si era aperto con l’affermazione forte di Gesù: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” e poi è continuato tutto sulla stessa linea. Come se d’improvviso Gesù avesse perso la pazienza e, sconsolato, guardando ai farisei, ai suoi, a noi, lungo i secoli, se ne fosse uscito con una sorta di “Ma per chi mi avete preso? Per la vostra dose quotidiana di placebo, la camomilla della sera, l’alibi alle vostre connivenze col peccato del sistema, la scappatoia religiosa per non impegnarvi, una tradizione di famiglia, un’identità culturale, una devozione che non fa male? Mio Dio, lasciatemi perdere, fate dell’altro, non prendetevi in giro”. Stamattina, durante l’Eucaristia, nella chiesa del monastero, ci chiedevamo quante volte avremo già sentito questo vangelo, e, con noi, quanti milioni e milioni di cristiani, uscendocene poi tranquilli e beati come se nulla fosse stato in grado di smuoverci, inquietarci, e, diciamo la parola, infiammarci, convertirci. Non c’è pace sulla terra, ma non a causa della divisione portata da Gesù, come anche nelle famiglie, ci si scontra e divide sempre di più, ma per litigi meschini su chi deve avere la meglio. Ci si azzanna tra movimenti, chiese e religioni, ma son tutti paraventi, che nascondono altri interessi. Gesù resta fuori da tutto questo. Ce lo siamo venduti, Lui e il suo messaggio, da tempo, al mercatino delle pulci. Lui che pensava di riuscire a sconvolgerci la vita e a scommettere che noi avremmo messo il mondo sottosopra, semplicemente con la pratica del Vangelo, la radicalità dell’amore, l’ostinazione nel perdono, la fine della figura del nemico, la valorizzazione dell’altro, l’alto tenore, insomma, della nostra testimonianza. Padre contro figlio, figlia contro madre e tutti gli altri dietro. Ingenuo di un Gesù. Ingenuo di un Dio. Provi a ricominciare da capo. Forse gli andrà meglio.

Oggi è la XX Domenica del Tempo comune e le letture che la liturgia odierna ci propone sono tratte da:
Profezia di Geremia, cap. 38, 4-6. 8-10; Salmo 40; Lettera agli Ebrei, cap.12, 1-4; Vangelo di Luca, cap. 12, 49-53.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le Chiese e comunità cristiane, al fine di ottener loro una nuova stagione di apertura, dialogo, fiducia e accoglienza reciproca.

Oggi, il calendario ci porta le memorie di Massimiliano Maria Kolbe, martire ad Auschwitz; di Alceu Amoroso Lima, militante della vita in Brasile; e di Xavier Thévenot, teologo, “traghettatore di umanità”.

Francescano conventuale, Raimondo Kolbe nacque l’8 gennaio 1894 a Zdunska Wola (Polonia). A partire dal 1917 si dedicò ad un’intensa attività missionaria, prima in patria, poi in Giappone, da cui ritornò, minato dalla tubercolosi, nel 1936. L’attività pubblicistica lo mise ben presto nel mirino delle autorità naziste. Arrestato il 7 febbraio 1941, a Varsavia, nel mese di maggio venne inviato ad Auschwitz e condannato ai lavori forzati. Lì non cessò di esercitare il suo apostolato tra i compagni di sventura, incoraggiandoli a resistere con fermezza d’animo. È qui che, il 30 luglio 1941, si offrì di prendere il posto di Francesco Gajowniczek, uno sconosciuto padre di famiglia, condannato a morte con altri nove compagni come rappresaglia per la fuga di un prigioniero dal campo. Rinchiuso con gli altri in un bunker, Kolbe resistette per quindici giorni alla fame, alla sete, alla disperazione, nell’oscurità del carcere, consolando i compagni che, uno dopo l’altro morirono. Lo finirono con un’iniezione di acido fenico il 14 agosto 1941.

Alceu Amoroso Lima. Nato a Petropolis (Brasile), l’11 dicembre 1893, fu filosofo, scrittore, giornalista, critico letterario, ma, soprattutto, militante cristiano della vita. Sposato a Maria Teresa de Faria, con cui ebbe sette figli, convertito al cattolicesimo a 35 anni, segnò la vita intellettuale, religiosa e politica del Brasile per mezzo secolo, restando sempre fedele a ciò che descriverà come “quel fondo di apertura dello spirito, pluralismo, comprensione… che mi fu connaturale dalla mia adolescenza e gioventù: aperto a tutti i venti dello spirito”. Dopo il golpe militare del 1964, pubblicò una serie di articoli contro la dittatura, valendosi del suo prestigio di intellettuale ed ebbe un atteggiamento aperto e coraggioso nella difesa dei diritti umani. Il che, sfortunatamente (come spesso accade) non si può dire caratterizzasse tutti gli ambienti ecclesiali, gerarchie religiose incluse. Ma tant’è. Alla fine ciascuno risponde per sé. Alla figlia, religiosa di clausura, con cui mantenne una corrispondenza quotidiana per oltre quarant’anni, scrisse di sé: “Entrai nella Chiesa, non come in un porto sicuro o in una fortezza, ma, al contrario, come ad un punto di partenza verso il mare aperto, per un’avventura maggiore: la scoperta del soprannaturale, dell’esistenza di Dio, dell’immortalità dell’anima, di tutto ciò che è arricchimento, apertura… Mai come a qualcosa di chiuso, di definitivo…”. Morì novantenne il 14 agosto 1983.

Xavier Thévenot era nato il 20 dicembre 1938, a Saint-Dizier (Haute-Marne), in Francia. Allievo salesiano, fu presto attratto dalla figura e dal carisma di don Bosco, che gli trasmise il gusto per la pedagogia e gli ispirò la vocazione religiosa. Conseguita la licenza in scienze all’Università di Caen, nel 1958 entrò nel noviziato salesiano, pronunciando i suoi primi voti l’anno seguente. Fu ordinato prete, nella città natale, il 21 dicembre 1968. Dopo un periodo come maestro dei novizi della provincia di Francia, venne indirizzato dai superiori allo studio della teologia morale, di cui diverrà in seguito professore alla Facoltà di Teologia dell’Istituto Cattolico di Parigi. Amava definire la morale “ciò a cui il genere umano si obbliga quando vuole dare un senso alla vita”, o, anche, come “un insieme di regole e valori che permettono di trovare poco a poco e liberamente dei cammini di umanizzazione e di felicità”. Profondamente radicato nella lezione del Concilio Vaticano II, divenne, su tutte le questioni morali, un teologo di riferimento, insegnando alle persone a riflettere e a discernere, quando il bene e il male sembrano inestricabilmente congiunti. Colpito, poco più che quarantenne dal morbo di Parkinson, fece della malattia, nel suo progressivo aggravarsi, nei successivi ventanni, lo spazio del suo apostolato e l’occasione di una riflessione in prima persona sul mistero della sofferenza che ci raggiunge inaspettata. Scrisse: “Tu sei battezzato: sei stato immerso nella mia morte e nella mia risurrezione. Abbi l’audacia di accompagnarmi nelle profondità di questo mistero pasquale; capirai allora meglio che io sono via, verità e vita, e che la mia gioia, nessuno la può rapire”. Thévenot è morto a Parigi il 14 agosto 2004.

“Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore, al dolore che ora mi tormenta (Lam 1, 12). Al tramonto di ieri, il calendario ebraico ha segnato l’entrata in Tisha beAv, cioè il 9 del mese di Av, che, lungo i secoli, è stato spesso un giorno funesto per il popolo ebreo. Fu, infatti, in tale data che avvenne, nel 587 a.C. la distruzione del Tempio di Salomone, e nel 70 d.C. la distruzione, ad opera dei romani, del secondo Tempio; e nel 1492, l’espulsione degli ebrei (e anche dei musulmani) dalla penisola iberica, dove abitavano da secoli, con la confisca di tutti i loro beni. In tutte le sinagoghe viene letta oggi la Meghillà di Eichà (il libro della Lamentazioni) ed è osservato un rigoroso digiuno di 25 ore. Noi abbiamo pregato in comunione con tutti i popoli che rivivono, nel nostro tempo, un’uguale tragedia, invocando per essi il dono della pace.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Xavier Thévenot, tratto dal suo libro “Ha senso la sofferenza?” (Edizioni Qiqajon), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Di scorciatoie ne facciamo di continuo… Talvolta è difficile eludere le trappole tese da un linguaggio approssimativo. Dire che Cristo ci redime con le sue sofferenze è una scorciatoia enorme! Dovremmo dire, invece, che Gesù ci salva, ci libera con la sua intera vita, intessuta d’amore appassionato per l’essere umano, di speranza contro ogni speranza, di fede radicale nel Padre e negli uomini. E questo anche quando lo hanno condotto a soffrire terribilmente. A redimere non è la sofferenza di Cristo in sé, ma il fatto che dentro le sue sofferenze Gesù è stato un uomo che ha vissuto in pienezza l’amore, la fede e la speranza. Dobbiamo sempre tenere in mente questa verità: solo quello che costruisce e libera l’essere umano redime. Ora, la sofferenza in sé non lo fa, di conseguenza non può redimere. Lo fa, invece, il modo in cui ciascuno cerca di umanizzare la propria vita dentro le sue sofferenze. E questo grazie a Dio e con Dio. Anche l’espressione “offri le tue sofferenze” è un’enorme scorciatoia. Poiché la sofferenza in sé distrugge, il “piacere” di Dio non dovrebbe essere nel ricevere qualcosa che rovina. Dio, invece, trova la sua gioia nel ricevere ciò che costruisce l’uomo. La sua gioia è nell’accogliere ciò che l’amore di Gesù permette di edificare all’essere umano, malgrado le forze di disunione della sofferenza. Dio ama ricevere la fede, la speranza, l’amore, l’umiltà, la pazienza al cuore delle nostre sofferenze. Davvero ciò che costruisce l’essere umano permette alla persona che soffre di continuare a entrare in relazione! Non si tratta di essere contro le scorciatoie del linguaggio, ma di essere consapevoli di quello che rappresentano. Altrimenti ci fanno deviare dalla vera fede e rischiano di farci immaginare un Dio perverso. Dobbiamo, ad esempio, essere consapevoli che quando dico: “Signore, ti offro le mie sofferenze”, in realtà voglio esprimere un’altra cosa: “Signore, ti offro il dono che mi fai di continuare ad accogliere la fede, la speranza e l’amore che tu, Dio, vivi verso di me”. Ecco infatti una delle affermazioni più grandi della fede cristiana: Dio crede in me. Si parla sempre della fede dell’uomo in Dio, ma anche Dio crede in me. Dio spera in me. Dio mi ama, e ciò che libera è riconoscere questo dentro la sofferenza e sviluppare il dono che egli mi fa in suo Figlio. (Xavier Thévenot, Ha senso la sofferenza?).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Agosto 2016ultima modifica: 2016-08-14T22:06:05+02:00da fraternidade
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