Giorno per giorno – 10 Luglio 2016

Carissimi,
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione” (Lc 10, 30-33). Quella del buon Samaritano è tra le parabole più note del vangelo, provocatoria quanto basta, secondo il costume di Gesù, nei confronti dei professionisti della religione, ma ricca di spunti di riflessione per la fede e la pratica di tutti noi. “Non abbiamo ragione di dire che sei un samaritano e un indemoniato?” (Gv 8, 48), era l’accusa che i religiosi rivolgevano a Gesù. Che era quanto di peggio si potesse dire e pensare allora di qualcuno. Ebbene, sì, Gesù prende proprio un samaritano come modello di comportamento, nonostante l’eresia di cui tutti sapevano colpevole questo importuno vicino e l’inimicizia secolare che opponeva samaritani e giudei. Come dire, al buon Dio non interessa proprio niente della vostra ortodossia, anzi lui stesso, se è vero com’è vero che Gesù è “immagine del Dio invisibile”, non esita a trasgredire se stesso e la sua parola (o ciò che nel tempo si è venuta cristallizzando come sua parola), pur di essere sempre e comunque parola e prassi di salvezza. La peggiore eresia, per Lui, non consiste in una errata maniera di pensarlo, celebrarlo, formularne le leggi, ma nel negarsi alla sua maniera di essere, che è da sempre e soltanto manifestazione della sua misericordia. Stamattina, nell’Eucaristia che abbiamo celebrato in monastero con dom Eugenio, abbiamo ricordato una volta di più che la radice della parola ebraica “misericordia” (rahamim) è “rehem”, utero, e, perciò amore materno. Dio, in Gesù, è il buon Samaritano, l’eretico di se stesso che si prende cura del nemico, e Dio, in Gesù, è anche il ferito, che tutti siamo chiamati a soccorrere, sfidando, nel caso, le leggi della religione e del consesso civile. Questa è la nostra fede e la nostra morale: essere come e con Gesù, per tutti, parola di salvezza. Il resto è superfluo, che serve, solo se serve ad affermare questo.

I testi che la liturgia di questa XV Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Deuteronomio, cap.30, 10-14; Salmo 69; Lettera ai Colossensi, cap.1, 15-20; Vangelo di Luca, cap.10, 25-37.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi le chiese copta, ortodossa e cattolica fanno memoria di Cirillo d’Alessandria, pastore e padre della Chiesa. Il martirologio latinoamericano ricorda P. Faustino Villanueva, martire della solidarietà in Guatemala. Noi ricordiamo anche i 51 Martiri ebrei di Berlino, vittime del fanatismo religioso nel 1519.

Cirillo nacque nel 370, nei pressi di Alessandria d’Egitto, ma della sua vita conosciamo in pratica solo gli eventi che seguirono la sua nomina a papa di Alessandria, nel 412, quando succedette nella carica a suo zio, il patriarca Teofilo, uomo violento e intollerante nei confronti di pagani, ebrei e cristiani che non la pensassero come lui, responsabile tra l’altro, nel 403, della fraudolenta deposizione da patriarca di Costantinopoli di S. Giovanni Crisostomo. A titolo di curiosità, furono i patriarchi della Chiesa alessandrina i primi in ordine di tempo a fregiarsi del titolo di papa (papas, padre), ai tempi di Eracla, 13º patriarca (232-248) sulla cattedra che fu, secondo la tradizione, di san Marco. Cirillo, teologo colto e penetrante, non fu, come del resto lo zio, alla cui scuola era cresciuto, quel che si dice uomo di dialogo. Se anche non vi intervenne personalmente, delegò tuttavia ai suoi armigeri e sostenitori l’organizzazione di provocazioni e tumulti che sfociarono nella cacciata degli ebrei da Alessandria, nell’espulsione dei Novaziani dalle loro chiese, nonché, nel marzo del 415, nella folle uccisione della filosofa e scienziata pagana Ipazia. Dal punto di vista teologico, Cirillo si dedicò soprattutto ad elaborare una cristologia e una pneumatologia con base nell’Evangelo e nella tradizione. Si scontrò per questo con Nestorio, patriarca di Costantinopoli, sul cui insegnamento teologico ebbe la meglio, nel Concilio di Efeso (431), che vide l’affermarsi della sua teologia dell’Incarnazione: “L’Emmanuele consta con certezza di due nature: di quella divina e di quella umana. Tuttavia il Signore Gesù è uno, unico vero figlio naturale di Dio, insieme Dio e uomo; non un uomo deificato, simile a quelli che per grazia sono resi partecipi della divina natura, ma Dio vero che per la nostra salvezza apparve nella forma umana”. Sembra che, negli ultimi anni di vita, condotto a più miti consigli dalla pluriennale esperienza pastorale, si sia dedicato a ricercare un cammino che aiutasse a superare i contrasti insanabili tra le chiese, creati dalla radicalizzazione del dibattito teologico. Morì nel 444. La chiesa copta lo ricorda il 27 giugno del calendario giuliano, che corrisponde al nostro 10 luglio.

Faustino Villanueva era un missionario spagnolo della Congregazione del Sacro Cuore, giunto in Guatemala, ventottenne, nel 1959, e destinato alla parrocchia di Joyabaj, nel Quiché. Lì, come nelle altre località in cui fu inviato negli anni seguenti – Canillá, San Andrés Sajcabajá, San Bartolomé Jocotenango, San Juan Cotzal, Sacapualas – la sua attitudine pastorale fu sempre la stessa: conoscere la realtà e i problemi della gente, annunciare la Parola di Dio, celebrare l’Eucaristia e amministrare i sacramenti nei diversi villaggi e comunità, portare medicinali, animare e organizzare la catechesi, e, negli ultimi tempi, aiutare a costituire una piccola cooperativa di produzione che riuscisse a sottrarre la povera gente dalle mani degli usurai. Tutti lo conoscevano come grande organizzatore, uomo di dialogo, pacifico, equilibrato e serio, ma anche sempre teneramente vicino alla sua gente. In nulla, pericoloso e, tanto meno, sovversivo. Eppure, nel Guatemala di quegli anni, chiunque scegliesse di vivere a servizio delle comunità indigene, sapeva già di essere nel mirino degli squadroni della morte. Il 10 luglio 1980, a tarda sera, due giovani bussarono alla sua porta chiedendo di parlargli. Il prete li fece accomodare nell’ufficio parrocchiale. Il tempo di entrare e lo crivellarono di colpi. Morì a causa della sua dedizione agli indigeni del Quiché, i più emarginati nella società guatemalteca.

Nel 1519, un folto gruppo di Ebrei di Berlino fu accusato del furto sacrilego della pisside e delle ostie consacrate perpetrato in una chiesa di Knoblauch, un paese del circondario. Centoundici ebrei furono arrestati e processati sommariamente. Di essi, cinquantuno furono condannati a morte e trentotto mandati al rogo nella piazza del mercato. Era il 10 luglio 1519. Venti anni dopo, la Dieta di Francoforte li avrebbe riconosciuti tutti innocenti. Vittime dell’odio per la loro fede di cristiani fanatici.

Bene, per stasera è tutto. La memoria del martirio di Faustino Villanueva ci porta ad offrirvi in lettura, nel congedarci, un brano del teologo della liberazione Jon Sobrino, tratto dal suo libro “Tracce per una nuova spiritualità” (Borla). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’evangelizzatore non è il possessore della buona novella, neanche in senso stretto, e neppure – per parlare in maniera un po’ provocatoria – il suo destinatario primo. È servitore radicale della buona notizia. Ciò non significa naturalmente che per lui non ci sia buona novella. È esperienza ripetuta che quanti evangelizzano i poveri si trovano a loro volta evangelizzati; quando comunicano la buona novella ai poveri, questi gliela restituiscono, l’evangelizzatore conosce più e meglio ciò che egli stesso annuncia, e la sua esistenza trova senso e significato. Per l’esistenza personale e cristiana degli evangelizzatori è di somma importanza essere evangelizzati, essere anch’essi – attraverso il “giro” dei poveri – destinatari della buona notizia. Ma nulla di ciò impedisce che formalmente e direttamente l’evangelizzatore sia servitore della buona notizia per gli altri, anche se nella sua coscienza concreta si intrecciano i due aspetti di servizio reso alla buona notizia e di servizio ricevuto dalla buona notizia. Ma per la spiritualità dell’evangelizzatore è di somma importanza sottolineare l’aspetto di “servizio”. I poveri non esistono per servire l’evangelizzatore (anche se in realtà lo fanno), ma per essere da lui serviti. In questo profondo senso l’evangelizzatore deve riprodurre il tratto caratteristico di Gesù: “non sono venuto ad essere servito ma a servire”. In mezzo al conforto e allo sconforto, in mezzo alla gioia quando l’evangelizzazione ha successo e i poveri riconoscono i misteri del regno, o in mezzo al dubbio, alla solitudine, al fallimento espressi nella crisi galilea di Gesù o nelle confessioni di Geremia, l’evangelizzatore ha un unico compito: quello di essere fedele e costante servitore della buona notizia. Deve prendere veramente sul serio l’avvertimento di Paolo “guai a me se non evangelizzassi…!” come sua più grave tentazione. (Jon Sobrino, Tracce per una nuova spiritualità).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 10 Luglio 2016ultima modifica: 2016-07-10T22:29:10+02:00da fraternidade
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