Giorno per giorno – 03 Giugno 2016

Carissimi,
“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15, 4-6). Stasera, a casa di dona Dalva (che contende al nostro Divino la risata più simpatica di tutta la città), ci dicevamo che, contrariamente a quello che avevano suggerito i primi intervenuti a commentare il vangelo, la casa del Padre non è necessariamente la chiesa e neppure la nostra comunità, ma è, facendo riferimento alla festa che si celebra oggi, il suo cuore, che supera i confini delle chiese e delle religioni, per abbracciare tutti. Gesù è venuto a farcelo sapere: non c’è nessuno che possa sfuggire ai lacci del suo amore. E quando qualcuno pretende di allontanarsene, il Padre non ci resta male per sé, non borbotta: ma guarda questo, che ingrato! Se ne va così, con tutto quello che ho fatto per lui! È solo preoccupato per l’altro, per il timore che si ritrovi solo, sperduto, indifeso, disorientato. Per questo non esita a lasciare tutti gli altri, i garantiti, per mettersi sulle sue tracce, a cercarlo. E, trovatolo, chiedergli, senza nessun inutile rimbrotto: Ti serve qualcosa? Restituendolo, subito dopo alla libertà della comunione fraterna. Perché noi siamo nati per questo. E, tutto bene, ogni tanto ci può anche venire voglia di sgattaiolare fuori in cerca di improbabili avventure, che, dalle prigioni del nostro egoismo, in cui ci saremo cacciati, ci faranno scoprire che l’avventura più bella (e più trasgressiva, rispetto al Sistema che ci ritroviamo) è quella che ci porta, seguendo i voli del suo Spirito, a costruire relazioni sempre più ricche ed estese, a misura del mondo. I veri devoti del cuore di Gesù è a questo che si sentono impegnati: consentire a tutti, quale ne sia la religione, la nazione, la cultura, l’estrazione sociale, la condotta morale, di comprendere, attraverso i loro gesti, parole, azioni, “quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché tutti siano ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 18-19).

Dunque, oggi, la Chiesa cattolica celebra la Festa del Sacro Cuore di Gesù, che, istituita su base locale nel 1765 da Clemente XIII, fu estesa da Pio IX, nel 1856, a tutta la Chiesa. Scrive Karl Rahner nel suo saggio dal titolo “Ecco quel cuore”: “Il termine cuore non significa già amore. Questo centro intimo e corporeo dell’essere umano personale, che confina col mistero assoluto, secondo la sacra Scrittura può essere anche perverso e costituire l’abisso insondabile, nel quale sprofonda il peccatore, che si rifiuta d’amare. Il cuore può restare vuoto di amore e può essere molto periferico ciò che si potrebbe chiamare ancora amore. L’uomo apprende per la prima volta che il più intimo della realtà umana è l’amore […] soltanto quando egli arriva a conoscere il Cuore del Signore. ‘Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini’: questa non è un proposizione analitica derivata dal concetto di cuore, ma la conseguenza sconvolgente della esperienza della storia della salvezza”.

I testi proposti alla nostra riflessione dalla liturgia della Festività odierna sono tratti da:
Profezia di Ezechiele , cap.34, 11-16; Salmo 23; Lettera ai Romani, cap.5, 5b-11; Vangelo di Luca, cap. 15, 3-7.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Il nostro calendario ci porta oggi la memoria di Carlo Lwanga e compagni, martiri in Uganda, Giovanni XXIII, il papa del Concilio, e Otto Neururer, martire sotto il regime nazista.

Carlo Lwanga e i suoi 31 compagni, cattolici e anglicani, soffrirono il martirio nel 1886, durante la persecuzione del re Mwanga, che fece numerose vittime. I martiri che ricordiamo servivano alla corte del re. Il più giovane, Kizito, aveva tredici anni. Alla fine del maggio 1886, quando Mwanga venne a sapere che molti dei suoi funzionari erano diventati cristiani, li convocò e, minaccioso, chiese loro se intendessero ostinarsi nella nuova fede. Essi risposero: Fino alla morte. La loro età era compresa tra i tredici e i venticinque anni. Carlo, responsabile dei paggi, fu il primo ad essere assassinato. Fu bruciato lentamente, a cominciare dai piedi. A Kalemba Morumba furono amputate mani e piedi: abbandonato su una collina, morì dissanguato. Andrea Kagua fu decapitato. Gian Maria fu affogato in un pantano. E così via.

Angelo Giuseppe Roncalli era nato il 25 novembre 1881 in una povera famiglia contadina a Sotto il Monte (Bergamo). Entrato in seminario a 11 anni, venne ordinato prete nel 1904 e consacrato vescovo nel 1925. In quello stesso anno venne inviato in Bulgaria come Visitatore e Delegato Apostolico. Dal 1934 al 1944 fu Delegato Apostolico in Turchia e Grecia, poi, dal 1944 al 1952, Nunzio Apostolico a Parigi. La nomina a patriarca di Venezia, nel 1953, lo sottrasse alla carriera diplomatica e lo riportò alla dimensione che più gli era consona di Pastore. Presentandosi ai veneziani disse: “Voglio essere per voi semplicemente un fratello, amabile, accostevole, comprensivo”. Ed, ogni giorno, aprì le porte della sua casa per tre ore, dalle 10 alle 13, a quanti desideravano parlargli. Durante il concistoro che seguì alla morte di Pio XII, il 28 ottobre 1958, alla vigilia dei suoi 76 anni, venne eletto papa e prese il nome di Giovanni XXIII. Quello che molti consideravano un “papato di transizione”, si rivelerà invece decisivo per il rinnovamento della Chiesa. Sua la decisione di indire un nuovo Concilio ecumenico, che lui stesso aprì l’11 ottobre 1962, e che rappresenterà una nuova Pentecoste nella vita interna della chiesa cattolica e nelle relazioni di questa con le altre chiese e con il mondo. Rilevante, coraggioso e innovatore, nel suo magistero, fu il tema della pace, a cui dedicò l’Enciclica Pacem in Terris e che seppe testimoniare con gesti profetici. Il 10 maggio 1963 ricevette il Premio Balzan, un prestigioso riconoscimento internazionale per la sua opera a favore della pace. Subito dopo, il peggiorare del male, di cui soffriva, lo costrinse a letto. Morì il lunedì dopo Pentecoste, 3 giugno, proprio nel momento in cui in piazza san Pietro terminava la celebrazione dell’Eucaristia.

Otto Neururer era nato il 25 marzo 1882 a Pillet, un piccolo villaggio del Tirolo (Austria), dodicesimo figlio di una famiglia di mugnai e contadini. Dopo gli studi in seminario, fu ordinato prete nel 1907, dedicandosi negli anni successivi all’attività pastorale in diverse parrocchie e all’insegnamento della religione. Nel 1932 fu nominato parroco a Götzene, nei pressi di Innsbruk e seppe farsi amare come pochi dai fedeli, che gli riconoscevano uno zelo e una dedicazione non comuni. Quando nel 1938, la Germania nazista realizzò l’annessione dell’Austria, accadde l’incidente che avrebbe mutato il corso della sua vita. Una ragazza, che era stata chiesta in sposa da un uomo di trent’anni più vecchio di lei, membro del partito nazista e fanatico sostenitore delle teorie razziste di quel partito, si era rivolta al prete per chiedere consiglio e lui l’aveva portata a riflettere sull’incongruenza per una giovane cristiana di dire sì a una tale unione. La ragazza seguì il consiglio, ma l’uomo per vendetta denunciò il parroco alla Gestapo, “per aver impedito un matrimonio tedesco”. Padre Neururer venne arrestato il 15 dicembre 1938 e rinchiuso in carcere ad Innsbruck, poi, l’anno successivo, fu trasferito nel campo di concentramento di Dachau e successivamente a quello di Buchenwald, in Germania. In tutto questo tempo, egli non cessò di sostenere e confortare i suoi compagni di sventura. Quando i suoi carcerieri scoprirono che aveva segretamente istruito nella fede e battezzato un altro prigioniero, lo segregarono nel bunker del campo, poi lo appesero a testa in giù, lasciandolo morire lentamente, il 3 giugno 1940.

Prendendo spunto dalla festività odierna, noi ci si congeda, offrendovi in lettura, come già altre volte, in questa occasione, un brano di Hans Urs Von Balthasar, tratto dal suo “Il cuore del mondo” (Piemme). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Siamo stati concepiti come esseri che possono volere ciò che involontariamente devono volere. Ma che cosa è più bello, quale pensiero potrebbe essere più inebriante di questo: la nostra esistenza è per se stessa opera dell’amore? Così che invano mi opporrei a non essere ciò che da sempre sono. Così che, qualora gridassi: no! a gola spiegata, gonfie le vene di angoscia: no!, nell’angolo estremo della caverna, a tradimento un’eco ormai dice: sì, anzi Sì. E se dopo qualche morte moriamo per l’ultima volta, allora in quest’atto supremo della vita l’esistenza ha cessato di morire. Mortale è pur sempre solo una cosa: vivendo non volere morire. Ogni morte che volontariamente va incontro alla morte è una vita che sorge. Così il calice dell’amore è misto di vita e di morte. È un miracolo il fatto che non amiamo: amore è la filigrana nella pergamena della nostra esistenza. Secondo la sua melodia le nostre membra si muovono. Chi ama obbedisce alla piega della vita nel tempo; chi si nega all’amore lotta (inutilmente) contro la corrente. Quanto facile ci è stato reso il gesto del dono dal momento che l’aurea acqua dell’essere ci passa attraverso come attraverso la bocca di una fontana! E quanto l’espropriazione ci è facile, dato che siamo immersi nella ricchezza del futuro che giunge inesauribile a noi! Quanto è facile la fedeltà, dato che il tempo infedele ci ha messo al dito l’anello che non si spezza! Quanto facile la morte, dato che veniamo a sapere ad ogni ora quanto è bello, anzi quanto vantaggioso il perire! E l’invecchiare perfino, quello che ci angoscia, restringe e delimita, offre a compenso delle nebbie di fuori la chiarezza interiore della povertà. Niente è tragico in noi, perché ogni rinuncia viene pagata in modo ultraricco, e quanto più vicini arriviamo al centro vero della povertà assoluta, con intimità sempre più grande prendiamo possesso di noi stessi e tanto più certo è che tutte le cose diventano nostre. (Hans Urs Von Balthasar, Il cuore del mondo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Giugno 2016ultima modifica: 2016-06-03T22:20:28+02:00da fraternidade
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