Giorno per giorno – 28 Settembre 2015

Carissimi,
“Frattanto, sorse una discussione tra i discepoli, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande” (Lc 9, 46-48). Gesù aveva appena finito di ripetere ai discepoli l’annuncio della sua imminente passione ed essi, lontani mille miglia dall’intenderne il significato, discutono su quale sia l’ordine gerarchico tra di loro. Anche in questo caso l’evangelista vedeva lungo, se non già sperimentava all’interno della sua comunità, le rivalità che via via si manifestano, l’esacerbata competitività, il desiderio di autoaffermazione e supremazia a scapito dello spirito di fraternità e di comunione. Fenomeni che facilmente rileviamo nella storia e nell’attualità delle nostre chiese. Determinati, sempre, è ovvio, dalle migliori intenzioni. Quali solo l’avversario sa architettare e rendere credibili. Beh, Gesù, dalla sua, rivela, per chi ci vuole credere e stare, qual è il criterio di grandezza che vige là dove regna Dio. Grande davvero è chi è piccolo. E più è piccolo, più è grande. Perché, lì, c’è niente meno che Dio. Il quale ha annullato se stesso, per identificarsi con tutti i nientificati della storia. Per cui chi accoglie uno di costoro, accoglie Dio. Cioè, crede in Lui. Diversamente, crede e agisce in nome di uno dei tanti dèi falsi e bugiardi, che alienano e finiscono per perdere l’uomo. C’è da pensare, guardando a come chi si dice cristiano accoglie e si prende cura dei naufraghi di una storia, costruita nei secoli sulla logica del dominio e dello sfruttamento dell’altro, spesso in nome di Cristo. Reso suprema bestemmia.

Il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di un martire dei nostri tempi: il Pastore Mohammad Bagher Yusefi, delle Assemblee di Dio dell’Iran, e di Giovanni Paolo I, papa umile.

Nato nel 1962 in una famiglia musulmana, Mohammad Yusefi era diventato cristiano ancora giovane, impegnandosi da subito, in una realtà oggettivamente difficile e ostile, ad annunciare e testimoniare la Buona Notizia di Gesù. Quando divenne pastore della sua Chiesa, colpì tutti per la sua mitezza e umiltà e la gente prese a chiamarlo Ravanbakhsh, che in persiano significa “colui che dà animo”. La mattina del 28 settembre 1996, uscì di casa alle sei, per recarsi alla preghiera. Non vi fece più ritorno. Lo ritrovarono morto in una foresta nei pressi della sua città, Sari, capitale della provincia iraniana di Mazandaran. Mohammad Yusefi, oltre ai suoi due figli, Ramsina (9 anni) e Stephen (7 anni), aveva cresciuto due figli del Rev. Mehdi Dibaj, un altro pastore cristiano, imprigionato per nove anni e ucciso, poco dopo la scarcerazione, in circostanze analoghe, per essersi rifiutato di rinnegare la fede cristiana. La moglie di Mohammad, Akhtar, anch’essa di origine musulmana, era divenuta cristiana ai tempi del Rev. Hossein Soodmand, martirizzato nel 1990. Si tratta, dunque, di una piccola chiesa martire, che speriamo sappia produrre frutti di perdono, speranza e riconciliazione per tutti.

Albino Luciani era nato il 17 ottobre 1912, a Forno di Canale (oggi, Canale d’Agordo), in provincia di Belluno, da Giovanni Luciani e Bortola Tancon. Entrato in seminario nel 1923, fu ordinato prete nel 1935. Il 15 dicembre 1958, Giovanni XXIII lo nominò vescovo di Vittorio Veneto, consacrandolo il 27 dicembre dello stesso anno. Prese parte a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II. Eletto patriarca di Venezia, vi fece il suo ingresso l’8 febbraio 1970. il 26 agosto 1978, nel secondo giorno del conclave che seguì alla morte di Paolo VI, fu eletto papa, con voto quasi unanime, e scelse il nome di Giovanni Paolo I. Morì il 28 settembre 1978, dopo soli trentatre giorni di pontificato. Un periodo breve, brevissimo, ma sufficiente per sorprendere quanti, dal personaggio che conoscevano, non s’aspettavano probabilmente grosse innovazioni. Tra i temi che intendeva porre all’ordine del giorno del suo ministero c’erano quelli della ripresa coraggiosa del cammino ecumenico, della valorizzazione della collegialità dei vescovi, della presenza della donna nella società civile e nella vita ecclesiale, della denuncia decisa dello scandalo della povertà nel mondo, della riforma della curia romana. Ebbe solo il tempo di offrirci uno stile un po’ diverso di essere papa, semplice, accogliente, umile. Per non far torto al motto che aveva scelto: “Humilitas”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Zaccaria, cap.8, 1-8; Salmo 102; Vangelo di Luca, cap.9, 46-50.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

I nostri fratelli ebrei sono entrati ieri sera al tramonto nella festività di Sukkoth (le “Capanne”), che si protrarrà per sette giorni. Ricorda i quarant’anni che il popolo ebreo trascorse nel deserto, dopo l’uscita dalla schiavitù in Egitto. In questa occasione ogni famiglia costruisce una capanna (succà), coperta di rami e di frasche, che lascia intravvedere il cielo, a simboleggiare la nostra disponibilità a lasciare che la luce di Dio entri sempre nelle nostre case e nelle nostre vite. Al suo riparo vengono consumate tutte le refezioni. Sukkoth costituisce, assieme a Pesach (Pasqua) e Shavuoth (Pentecoste), la terza delle feste di pellegrinaggio. Rappresentava anche la festa del raccolto autunnale. Il Levitico prescrive a suo riguardo: “Il quindici del settimo mese (ora Tishri è il primo mese), quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al Signore per sette giorni; il primo giorno sarà di assoluto riposo e così l’ottavo giorno. Il primo giorno prenderete frutti degli alberi migliori: rami di plama, rami con dense foglie e salici di torrente e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni” (Lv 23, 39-40). In base a quest’ordine si prepara il “lulav”, composto da un ramo di palma, tre di mirto, due di salice e, a parte, un frutto di cedro senza difetto. Tradizionalmente le quattro specie di vegetali del lulav simboleggiano i quattro diversi tipi di persone presenti nella comunità: alcuni sono sapienti e generosi (come il cedro, che è profumato e dà frutti buoni), altri sono sapienti, ma non generosi (come il mirto, che è profumato, ma non dà frutti), altri generosi, ma non sapienti (come la palma, che non profuma, ma dà frutti dolci e nutrienti), altri, infine, che non sono sapienti né generosi (come il salice che non profuma, né dà frutti). Dopo la benedizione in sinagoga, il lulav viene agitato in direzione dei quattro punti cardinali, perché la benedizione di Dio possa raggiungere tutto il mondo. Il settimo giorno della festa è chiamato “Hosha’anah Rabbah” (“Oh salvaci”), una sorta di ultima chance per ottenere il giudizio favorevole di Dio, rimasto eventualmente in sospeso nello Yom Kippur.

È tutto, per stasera. Il 28 settembre 1883 nasceva colui che sarebbe stato chiamato e venerato come il “marabout di El Kbab”, padre Albert Peyriguère, la cui vicenda ebbe inizio dall’incontro con la spiritualità di Charles de Foucauld, che l’avrebbe orientato per tutta la vita, spesa, nell’Atlante marocchino, come lui stesso ebbe a scrivere, “in un piccolo eremo, come il più felice degli uomini, senza desiderare nulla… ma solo il cielo, con il cuore schiacciato dal peso di tanta gioia e di un così grande onore che il Maestro mi ha procurato con questa splendida vocazione. Contemplazione e carità: pregare, immolarsi, facendo gesti di bontà; ricominciare tra queste anime il magnifico gesto di Cristo, la cui opera redentrice girò intorno a queste tre parole: pregare, immolarsi, fare il bene”. Noi ne facciamo memoria nella data della morte, il 26 aprile, ma prendiamo comunque spunto da questa ricorrenza per proporvi una sua citazione, tratta dal libro “Voice From the Desert” (Sheed & Ward). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non dobbiamo più parlare di ciò che ci piace o non piace. Né parlare più di ciò che sembra importante o non importante. Noi non siamo più, solo Cristo è in noi. In noi e attraverso noi. Lui fa quello che vuole, ed è ciò che Egli vuole che è buono. “Santa indifferenza”. Noi siamo stati spostati al di là di ciò e questo non ha più senso. Ogni cosa in noi è un mezzo per la vita di Cristo in noi. Come può esserci indifferente qualcosa che si traduce in un più di Cristo? Tutto diventa un “dare gioioso” nella nostra vita. … Attraverso la più insignificante delle nostre azioni, Cristo… esiste un po’ di più. Sto parlando del Cristo mistico, che è anche il Cristo vero e personale, e anche qualcosa di più. L’anima non sa più come dire “no”; essa non classifica più le cose come dolorose o piacevoli, come importanti o minori, dal momento che tutto nella nostra vita è l’argilla che Cristo usa per plasmare se stesso in noi. Questa è una spiritualità molto alta, ma chiara, semplice, pratica. Non voli del romanticismo, che ci portano nella terra dei sogni (né solo espressioni esteriori e superficiali). (Albert Peyriguère, Voice From the Desert).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Settembre 2015ultima modifica: 2015-09-28T22:26:02+02:00da fraternidade
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