Giorno per giorno – 06 Luglio 2015

Carissimi,
“Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita. E in quell’istante la donna guarì. Arrivato poi Gesù nella casa del capo e veduti i flautisti e la gente in agitazione, disse: Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Quelli si misero a deriderlo. Ma dopo che fu cacciata via la gente egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò!”(Mt 9, 22-25). Stasera, eravamo per la prima volta a casa di dona Salviana, il cui nome, per una qualche coincidenza ha a che vedere con il vangelo di oggi. Il quale vangelo è piu che semplicemente il racconto di due miracoli. Forse, ciò che vuole insegnarci è uno sguardo diverso sulla vita, con le sorprese nel bene e nel male che ci riserva, e sulla morte, rispetto a quello cui siamo abituati. Le traduzioni che ci propongono di questo brano ci sembra che ne limitino un po’ l’intendimento originario. La storia è quella di una donna malata e di una bambina morta. La donna spera che il contatto con Gesù la guarisca, il padre della bimba spera che il tocco di Gesù la restituisca alla vita. In entrambi i casi il vangelo usa due verbi che esprimono un significato più ampio di quello reso dalle traduzioni. Nel primo caso, il verbo dell’originale greco è “salvare” (sōzein, che ha il suo equivalente nell’ebraico ish‘, il verbo che compone il nome di Gesù: Yhwh-salva), che è più del semplice guarire. Io posso anche non guarire dalla mia malattia, ma nondimeno posso essere salvato, vivere sotto lo sguardo che ho incontrato di Dio, farlo mio, diventare io stesso per gli altri segno vivo del suo tocco che cura. Nel secondo caso, dopo aver riferito l’affermazione di Gesù: “La fanciulla non è morta, ma dorme”, l’evangelista conclude che Gesù “entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò”. Il verbo del testo greco (egheirein) è, sì, alzare, destare, ma anche suscitare, dare esistenza, risuscitare. Ed è lo stesso verbo usato per dire la risurrezione di Cristo. Di cui noi, se lo crediamo, non per nostra capacità, ma per il suo tocco, diveniamo partecipi. Non è, dunque, un semplice tornare alla vita, ma un risorgere, proprio quando non c’era più nessuna speranza, un risorgere a una nuova vita. E così la nostra dona Salviana ha avuto stasera la buona notizia, il vangelo adeguato al suo nome. Cui, da qui in avanti promette che farà onore. E anche noi, nella misura del possibile e dell’impossibile che appartiene a Lui.

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Genesi, cap.28, 10-22; Salmo 91; Vangelo di Matteo, cap.9, 18-26.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi ottantanni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione, tratta questa volta dal libro “Il mio Tbet libero. Un appello di umanità e tolleranza” (Apogeo/Urra). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Qualità umane come la moralità, la compassione, il decoro, la saggezza e via dicendo rappresentano i valori di base di tutte le civiltà. Le dobbiamo coltivare e favorire per mezzo di una sistematica educazione morale all’interno di un ambiente sociale favorevole, così da creare un mondo più umano. Tali qualità devono essere insegnate ai bambini fin dalla tenera età. Non possiamo aspettare che sia la prossima generazione a operare questo cambiamento; è quella presente a dover tentare un rinnovamento fondato sui valori umani. Se c’è qualche speranza, è nelle generazioni future, ma a condizione che noi operiamo un radicale cambiamento a livello globale del nostro sistema educativo attuale. Abbiamo bisogno di una rivoluzione nel nostro rapporto teorico e pratico con i valori umani universali. Non è sufficiente denunciare con fastidiose lamentele la degenerazione morale; dobbiamo agire anche concretamente. Poiché gli attuali governi non si fanno carico di queste responsabilità “religiose”, gli operatori impegnati in ambito spirituale e umanitario devono rafforzare le organizzazioni civili, sociali, culturali, pedagogiche e religiose per favorire la rinascita di valori umanitari e spirituali. Laddove necessario, dobbiamo istituire nuove organizzazioni per raggiungere questi obiettivi. Solo facendo così possiamo sperare di creare una base più stabile per la pace mondiale. Poiché viviamo in una società, dobbiamo imparare a condividere la sofferenza del prossimo e praticare la compassione e la tolleranza non solo nei confronti di chi amiamo, ma anche dei nostri nemici. È questa la prova della nostra forza morale. Dobbiamo essere di esempio in prima persona, poiché non possiamo convincere gli altri del valore della religione solo a parole. Dobbiamo vivere adottando gli stessi alti livelli di integrità e sacrificio che chiediamo agli altri. La finalità ultima di ogni religione è servire e fare del bene all’umanità. È questo il motivo per cui è così importante che il ricorso alla religione sia sempre finalizzato alla felicità e alla pace degli esseri umani, e non solo alla conversione. (Dalai Lama, Il mio Tbet libero. Un appello di umanità e tolleranza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2015ultima modifica: 2015-07-06T22:54:13+02:00da fraternidade
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