Giorno per giorno – 03 Luglio 2015

Carissimi,
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv 20, 24-25). Tommaso era lo stesso che quando gli altri discepoli avevano tentato di dissuadere Gesù dal recarsi a Gerusalemme, per le minacce che incombevano su di lui, aveva detto loro piuttoso baldanzoso: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11, 16). Poi, anche Tommaso, al momento opportuno, forse vinto dalla paura, deve aver ritenuto più prudente pensarci su e rinviare la cosa. Il vangelo di oggi ci sposta a quando tutto si è già consumato, secondo le peggiori previsioni: l’arresto del maestro, il processo farsa, la morte in croce, la sepoltura. È vero che, il primo giorno della settimana, a detta dei discepoli, Gesu sarebbe apparso loro, Tommaso assente. Ma, lui diffida, come si trattasse di una storia di fantasmi. Che non significa niente per la vita della gente. Ciò che potrebbe darle significato, rivoluzionarla del tutto, è il poter toccare in quel corpo le marche dei chiodi, la ferita della lancia. Perché in un corpo risuscitato vorrebbe dire convalidare la vita, ma soprattutto la morte di Gesù, come la verità di Dio. Ossia ci direbbe che tutto ciò che sapevamo di quel buon uomo di Gesù, ora lo sapppiamo con certezza di Dio. Gesù non si sottrae alla richiesta di Tommaso. E lo fa per istruire anche noi. Che, comunque, dopo duemila anni, ci fermiamo ancora all’aspetto del miracolino, ma non alla sua sostanza. Dio è da allora e per sempre identificato con il corpo martoriato di quell’uomo che ha scelto di condividere il destino di tutti i crocifissi della storia. È come dicesse: cercate Dio? Cercatemi lì. Gli oppressi, gli sfruttati, gli emarginati, i torturati, gli ultimi, la feccia delle vostre società opulente, sono il mio più vero sacramento. Sono Io. Che rivivo ogni volta che rivivono loro, nel no che oppongono ad ogni ingustizia, nelle lotte solidali per il bene di tutti, nell’impegno quotidiano per l’accadere del Regno. Ma, noi, noi che parte ci facciamo in tutto questo?

Se, oggi, si è letto questo vangelo, è a causa della memoria di Tommaso apostolo. Noi, assieme a lui, ricordiamo una grande figura di maestro del sec. XX : Bernard Häring, apostolo della non-violenza.

Israelita, Tommaso fece parte del gruppo dei dodici. Il suo nome appare nell’elenco fornito dai quattro evangelisti. Il Vangelo di Giovanni gli dedica un rilievo particolare. È lui che incita i discepoli a seguire Gesù e a morire con lui in Giudea (Gv 11,16). È lui che chiede a Gesu, durante l’ultima cena, sul cammino che conduce al Padre (Gv 14,5-6). Tommaso fa una singolare esperienza dell’incontro con il Cristo risorto (Gv 21,2). Temperamento coraggioso e pieno di generosità, percorre le tappe della fede e riconosce Gesù, il maestro che ha dato la sua vita per amore, come Dio e Signore (Gv 20,26-28). Una tradizione afferma che nella sua missione di evangelizzazione arrivò fino in India, dove sarebbe morto martire.

Bernard Häring era nato il 10 novembre, 1912 a Böttingen (Germania), da Johannes e Franziska Häring. Entrò dodicenne nel seminario di Gars-am-Inn e, nel 1933, iniziò il suo noviziato tra i Redentoristi. Ordinato sacerdote sei anni più tardi, dopo la parentesi bellica, riprese gli studi di teologia morale, a cui l’avevano destinato i superiori, conseguendo, nel 1947, il dottorato in Sacra Teologia nell’Università di Tübingen. Nel 1954 pubblicò la sua prima opera maggiore di teologia morale: La Legge di Cristo, in cui “proponeva una teologia morale incentrata sulla Bibbia, sulla liturgia, sulla cristologia e sulla vita”, opponendosi “risolutamente ad ogni legalismo che facesse di Dio un controllore anziché un salvatore di grazia”. Fu nominato da papa Giovanni XXIII membro della Commissione Preparatoria del Concilio Vaticano II e a lui si deve un decisivo contributo nella redazione del documento conciliare Gaudium et Spes. Nel 1979 gli venne diagnosticato un tumore alla gola, contro cui lottò coraggiosamente, senza mai perdere il suo spirito. Centrale nel suo magistero e nella sua testimonianza di vita i temi della pace, della non-violenza e del dialogo. Scrisse: “Non potrei perdonarmi, se non credessi di poter vivere il Vangelo dell’amore non-violento e se non lo predicassi come nucleo e apice della fede in Cristo, redentore del mondo”. Molto ebbe a soffrire per le incomprensioni e le censure da parte della gerarchia ecclesiastica, ma questo non gli impedì di scrivere alla vigilia della morte: “Amo la Chiesa così com’è, come anche Cristo mi ama con le mie imperfezioni e le mie ombre”. Si spense a Gars-am-Inn il 3 luglio 1998.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria dell’Apostolo Tommaso e sono tratte da:
Lettera agli Efesini, cap.2, 19-22; Salmo 117; Vangelo di Giovanni, cap.20, 24-29.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessa l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Oggi ricordiamo anche la drammatica scomparsa, avvenuta il 3 luglio 1995, a Firenze, di Alexander Langer, una delle personalità più ricche, profonde e, negli ultimi tempi, sofferte, della vicenda politico-culturale di fine secolo del vostro Paese. Vogliamo farlo citando le parole con cui, in un discorso tenuto a Viterbo, il 27 gennaio 1995, spiegava la sua proposta di rovesciare il motto olimpico (“citius, altius, fortius”) come segno di una cultura nuova preoccupata di ristabilire un rapporto armonioso con la natura e relazioni pacifiche e solidali tra gli uomini: “Invece di dire più veloce probabilmente abbiamo bisogno oggi di una svolta verso una maggiore lentezza (lentius). Invece di dire più alto, che è poi il massimo della competizione, io credo che possiamo puntare viceversa sul più profondo (profundius), cioè sul valorizzare più le dimensioni della profondità che significa tante volte rinunciare alla quantità, alla crescita, guadagnando in qualità. E invece di più forte oggi possiamo cercare invece il più dolce, il più mite (suavius): nei comportamenti collettivi ed individuali invece di puntare alla prova di forza, al massimo della competizione, si punti, anche in questo caso, sostanzialmente alla convivenza”.

Bene. Oggi, dom Eugenio, il nostro vescovo, compie settantuno primavere. Chi conosce il suo stile e quello di un certo numero di vescovi di qui, non arriva certo a stupirsi della maniera d’essere, semplice, accattivante, profonda e profetica, del vescovo di Roma, che questo Continente ha regalato alla Chiesa universale. Mettetelo nelle vostre preghiere, in questo giorno del suo compleanno, perché continui ad essere pastore di questa chiesa, secondo il cuore del Padre.

Rifacendoci al ricordo di Alexander Langer, scegliamo di congedarci, proponendovi un suo articolo apparso con il titolo “Per una cultura della convivenza” in Nigrizia del marzo 1989. È, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Le nostre società sono da qualche secolo diventate “nazionali”, comprimendo ed omologando le diversità che stanno sotto quella soglia (i dialetti, le autonomie locali, le identità regionali, le minoranze etniche…) e fomentando diffidenza e spesso aperta ostilità verso quelle altre diversità che stanno oltre e fuori di essa: le altre nazioni, religioni, tradizioni, mentalità. Quante generalizzazioni semplicistiche ed ingenerose tocca sentire tutti i giorni: “i meridionali sono tutti… gli inglesi/i tedeschi/gli slavi… sono tutti…”! Quindi siamo poco abituati all’idea che la multiformità etnica e culturale di una società, di una città, di una regione possa essere una ricchezza anziché una condanna ed un fardello negativo. Eppure non c’è altra prospettiva: finché la nostra civiltà industrializzata ed opulenta, conmsumistica e competitiva imporrà a tutti i popoli la sua legge del profitto e dell’espansione, sarà inevitabile che gli squilibri da essa indotti sull’intero pianeta spingeranno milioni e miliardi di persone a cercare la loro fortuna – anzi, la loro sopravvivenza – “a casa nostra”, dopo che abbiamo reso invivibile “casa loro”. Attrezzarsi ad un futuro multi-etnico, multi-culturale e pluri-lingue è dunque una necessità, anche se non piacesse. Tanto vale che gli europei se ne convincano e cerchino tempestivamente i modi per sviluppare una cultura della convivenza. Cominciando, per esempio, dalla scuola e dalla scuola materna, che sempre più spesso diventerà luogo di incontro e – si spera – di reciproca accettazione tra bambini “diversi” per colore di pelle, religione o madrelingua. O dalle organizzazioni dei lavoratori, che non possono più limitarsi a difendere i diritti dei soli “connazionali”. O dal diritto di voto amministrativo a chi ormai è diventato parte della comunità locale, anche se avesse un passaporto diverso. O dalle organizzazioni giovanili – religiose e non – che possono diventare un’egregia scuola di positiva convivenza ed interazione. Solo la positiva costruzione di una cultura della convivenza (e quindi della reciproca conoscenza e stima, senza per questo annullare culture differenti o altre diversità) può offrire un’alternativa alla crescita del razzismo. (Alexander Langer, Per una cultura della convivenza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Luglio 2015ultima modifica: 2015-07-03T22:46:11+02:00da fraternidade
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