Giorno per giorno – 02 Luglio 2015

Carissimi,
“Salito su una barca, Gesù passò all’altra riva del lago e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mt 9, 1-2). Gesù vide la fede degli amici o dei parenti, non quella del paralitico in questione. Loro glielo avevano solo portato lì, glielo avevano mostrato, senza dire nulla. E come prima cosa, riconcilia il malato con se stesso, con la società, con Dio. Gli condona il debito contratto ogni volta che non si riesce più ad amare. Quello dell’amore, del resto, secondo le parole dell’Apostolo, è l’unico debito che dovremmo avere gli uni con gli altri. E l’incapacità ad amare sopraggiunge quasi sempre come risposta al disamore di cui abbiamo fatto esperienza. Che ci condanna all’immobilità. Un individuo, ma anche una società, una comunità, una chiesa che non sa amare, che non sa perdonare, che non sa condonare i debiti che si sono accumulati, è un individuo, una società, una comunità, una chiesa, paralizzata, anche se può dar mostra di un’attività frenetica. Il paralitico del racconto è allora specchio e denuncia di una paralisi che può riguardare me, te, noi, voi, la società, la chiesa nel suo complesso. A cui si deve rispondere con la parola del perdono, del condono, perché si possa iniziare insieme una nuova storia di libertà e solidarietà. Dato che tale potere è stato dato da Dio al figlio dell’uomo. Cioè, ad ogni uomo.

Oggi facciamo memoria di Antonio Fortich, pastore e testimone di giustizia e di pace.

Antonio Fortich, figlio maggiore di Ignacio Fortich e di Rosalia Yapsutco, era nato l’11 Agosto 1913 a Dumaguete, nella provincia di Negros Oriental, nelle Filippine. Ordinato prete il 4 marzo 1944, fu consacrato vescovo di Bacolod il 24 febbraio 1967. Probabilmente, non erano molti ad aspettarsi ciò che avrebbe da subito messo in cantiere. Nella sua prima lettera pastorale rivolse un deciso richiamo ai proprietari delle piantagioni di canna al dovere di pagare giusti salari ai loro lavoratori, rivendicando nel contempo il diritto di questi a costituire i loro sindacati. Decise che il Palazzo vescovile si sarebbe chiamato “casa del popolo” e fece in modo che lo diventasse davvero. Diede avvio inoltre a numerosi progetti: dalla realizzazione immediata della riforma agraria nelle proprietà della chiesa, all’apertura di un Centro di Azione Sociale, che favorisse la riflessione, il confronto e la mobilitazione delle forze popolari; all’acquisto di un vecchio mulino, con il trasferimento delle sue strutture, su un convoglio di ottanta camion, ad una remota valle di montagna per la creazione di una Cooperativa di zucchero, riso e cereali, a Daconcogon; e, ancora, alla costituzione di un programma di assistenza legale gratuita per i non abbienti; al permesso accordato a due sacerdoti di dedicarsi alla creazione del sindacato dei lavoratori della canna, e così via. Ma, probabilmente, più importante di tutto fu convincere la maggior parte dei suoi preti che il servizio ai poveri era condizione indispensabile per lo svolgimento del loro ministero. Le “incomprensioni” che incontrò in altri membri della gerarchia e, in primo luogo, neanche a dirlo, nel nunzio apostolico, l’italiano mons. Bruno Torpigliani, il nostro vescovo le aveva messe in conto e le subì in silenzio e con grande umiltà. Frequenti furono le minacce alla sua vita da parte delle oligarchie e della destra politica. Le dimissioni, presentate al compimento del settantacinquestimo anno, furono accolte il 31 gennaio 1989. Benché pensionato, non smise di lavorare, dedicando gli ultimi anni al servizio della pace nel suo Paese. Morì il 2 luglio 2003. Vescovo, per dirlo con le parole di uno dei suoi più stretti collaboratori che “aveva deciso una volta per tutte che la Chiesa non è chiesa se non è madre dei poveri”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Genesi, cap.22, 1-19; Salmo 116A; Vangelo di Matteo, cap.9, 1-8.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

La figura di mons. Antonio Fortich porta la nostra attenzione sulle Filippine, l’unico paese a forte densità cristiana (oltre il 90%) dell’immenso continente asiatico, dove la presenza del cristianesimo è ridotta a pochi punti percentuali. Questo porta a interrogarsi su quali terreni di incontro si possa sviluppare un dialogo rispettoso e proficuo, tra culture così apparentemente distanti. Alcuni tra i maggiori teologi di quelle aree che hanno approfondito il tema, propongono che sia la categoria della salvezza e il discorso su di essa (soteriologia). Abbiamo su questo trovato buone informazioni e spunti di riflessione nel bel volume di Rosino Gibellini “La teologia del XX secolo” (Queriniana), di cui, nel congedarci, vi proponiamo un brano come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La base della religiosità asiatica è la liberazione, e non la fede in un Dio personale. La religiosità asiatica è in gran parte meta-teistica, o almeno non-teistica, se non, talvolta a-teistica. Per la religiosità asiatica la soteriologia è il fondamento della teologia. È questo il punto di contatto tra cristianesimo e religioni non-cristiane in Asia; “è questa l’unica porta che può far «rientrare» in Asia il cristianesimo – che pur essendo nato in Asia rappresenta oggi in Asia quasi un corpo estraneo -, “cioè il nucleo soteriologico o il nocciolo liberante delle varie religioni che hanno dato forma e stabilità alle nostre culture” (A. Pieris). L’approccio con le religioni asiatiche, pertanto, non può essere né ecclesiologico, né cristologico, né teo-logico (nel senso della dottrina su Dio), ma soteriologico, e deve mirare al fine che ogni tradizione religiosa esprima il meglio di sé come “via alla salvezza”, in termini non solo di micro-etica (dimensione individuale della liberazione/soteria), ma anche di macro-etica (dimensione politico-sociale). La via alla salvezza passa attraverso un cammino di umanizzazione individuale e strutturale. Questa è la posta in gioco. Se la teologia cristiana ha un compito in Asia, non è quello di imporre una visione del mondo, ma di sollecitare, promuovere ed accompagnare quello che Pieris chiama il “disvelarsi cristiano dell’esperienza non-cristiana della liberazione”. Non è un’opera indolore per la chiesa, da essa si esige il farsi “molto umile per essere battezzata nel Giordano della religiosità asiatica e molto ardita per essere battezzata sulla croce della povertà asiatica”. È un cammino da percorrere nell’umiltà e nella partecipazione, e su di esso stanno incamminandosi le comunità di base, che non impongono una cosmologia cristiana, ma mettono in opera un’ermeneutica del Vangelo nella prospettiva del Terzo Mondo, dove diventano centrali le categorie di basiléia, metánoia, martýrion, regno, conversione e impegno: “Non dovrebbe la teologia essere l’esplicitazione della teoprassi di queste ecclesiolae (piccole chiese) che si sono appropriate la religiosità rivoluzionaria del Terzo Mondo e non dovrebbe la messa per iscritto di questa teologia essere demandata a redattori tardivi? La Scrittura non è nata in questo modo e non è questo il modo di far teologia nel Terzo Mondo?” (Rosino Gibellini, La teologia del XX secolo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Luglio 2015ultima modifica: 2015-07-02T22:40:42+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo