Giorno per giorno – 14 Aprile 2015

Carissimi,
“E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15). Come accedere alla vita di Dio? Solo attraverso il Crocifisso. Che è la manifestazione tangibile dell’agire di Dio, che si rende presente nel libero consegnarsi del Figlio all’infame supplizio della croce, per proteggere e salvare i suoi (quindi anche noi) dalla morte. Da allora noi sappiamo che entrare nella vita di Dio è passare per la croce, non per un qualche masochistico gusto per la sofferenza, ma per un’incontenibile esigenza del dono d’amore. Come dire: ti do tutto ciò che ho perché tu viva; quando non ho più niente, se serve a qualcosa, sono disposto a dare la vita. Le scelte che abbiamo davanti, in ogni nostra azione, sono quelle che ci portano, in misura maggiore o minore, a fabbricare croci, su cui verranno crocifissi altri, o ad essere noi stessi crocifissi con o al posto di altri, o, infine, a darci da fare per staccare gli altri dalle loro croci. Nascere di nuovo, risorgere, è leggere nelle braccia tese del Crocifisso l’immagine dell’abbraccio infinito del Padre. È diventare noi quello stesso abbraccio.

Il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria di Maria Egiziaca, eremita e penitente, e di Râmana Mahârshi, mistico indiano.

Su Maria Egiziaca, eremita e penitente del VI secolo, che trascorse gran parte della vita e fu sepolta nel deserto di Giuda, sorsero ben presto numerose leggende, di cui non riusceremo mai a sapere gli eventuali elementi di storicità. La più famosa di queste, attribuita a Sofronio, narra che Zosimo, ieromonaco di una laura palestinese, essendosi recato durante una Quaresima nel deserto, vi incontrò un’anziana donna, consunta dagli stenti e bruciata dal sole, a cui chiese di raccontargli la vita. Lei disse di essere egiziana. A dodici anni era fuggita di casa e si era recata ad Alessandria, dove per diciassette anni aveva vissuto in modo dissoluto. Incontrando un giorno un gruppo di pellegrini che si imbarcavano per Gerusalemme, decise di unirsi a loro, mossa dal desiderio di nuove avventure. Giunta nella città santa, avrebbe voluto entrare a visitare la basilica del Sepolcro, ma una forza misteriosa l’aveva trattenuta. Fu allora che maturò la sua conversione. E scelse il deserto. Giunta sulle rive del Giordano, fece visita al santuario di S. Giovanni Battista e scese nel fiume per purificarsi. Ricevuta la Comunione, si inoltrò nel deserto, dove, quando incontrò Zosimo, abitava da quarantasette anni. Terminato il racconto, chiese al monaco di tornare l’anno successivo, il Giovedì santo, per portarle l’eucaristia. Cosa che egli fece. Maria si comunicò e rinnovò l’appuntamento per l’anno successivo. Ma quando il monaco tornò, trovò solo il corpo della donna morta e una scritta: “Padre Zosimo, sotterra il corpo dell’umile Maria; restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi polvere a polvere ed in nome di Dio prega per me; sono morta nel mese di pharmouti, secondo gli egiziani, che corrisponde all’aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al pasto mistico”. Era dunque morta un anno prima, la notte successiva al loro ultimo incontro. Zosimo, aiutato da un leone, scavò la fossa e la seppellì, tornando poi al suo monastero, dove raccontò la storia all’ egumeno Giovanni e agli altri monaci, per loro edificazione. I copti ne celebrano la memoria il 6 barmudah/miyazya, che coincide con il 14 aprile).

Râmana era nato il 30 dicembre 1879 a Tiruchuli, a circa trenta miglia di distanza da Madurai, nell’India meridionale, nella famiglia di Sundaram Aiyar e Alagammâl. Ricevette il nome di Venkateswaram. Successivamente, quando si iscrisse a scuola, il nome gli fu cambiato in Venkataraman e presero a chiamarlo Râmana. Alla morte del padre, fu affidato ad uno zio e andò a vivere a Madurai, dove frequentò la Scuola superiore della Missione americana. Negli studi non si rivelò particolarmente brillante, era però un giovane forte e sano. A diciassette anni, dopo aver “vissuto” a livello di coscienza l’esperienza della morte e il superamento di questa nel processo di assorbimento/identificazione con il Sé divino, lasciò ogni cosa e si recò sulla montagna sacra di Arunachala, a Tiruvannamalai, dove sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Passò molti anni in silenzio e solitudine. Poi cominciò a diffondersi la sua fama, che richiamò presso di lui folle di visitatori e di curiosi. Nel 1907, uno dei suoi primi devoti lo chiamò Baghavan Râmana Mahârshi (il beato Râmana Grande Saggio) e il nome gli restò. Attorno a lui sorse un ashram, che via via si ingrandì. Râmana sedeva la maggior parte del tempo nella sala dell’ashram, come testimone di tutto quello che accadeva intorno a lui. Non permetteva mai che gli venisse mostrata qualsiasi preferenza e anch’egli trattava tutti con lo stesso rispetto e amore. Il suo insegnamento era quasi muto: bastava uno sguardo e il suo significato veniva compreso da tutti. Se gli veniva posta una domanda, rispondeva brevemente e con dolcezza. Il 5 Febbraio 1949, si manifestò la malattia che l’avrebbe portato alla morte: un sarcoma maligno. Râmana rimase distaccato e del tutto indifferente alla sua sofferenza, ma si preoccupava di confortare quanti, vicino a lui, se ne addoloravano. La fine arrivò la sera del 14 Aprile 1950. Dopo che i presenti nell’ashram ebbero eseguito il suo inno ad Arunachala, Râmana chiese ai suoi aiutanti di metterlo a sedere: sorrise e entrò nel suo Mahanirvana, o, semplicemente, morì.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.4, 32-37; Salmo 93; Vangelo di Giovanni, cap.3, 7b-15.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

Prendendo spunto dalla memoria di Maria Egiziaca, vi proponiamo un brano del monaco egiziano Matta El Meskin, tratto da una sua omelia pasquale del 1974, che troviamo nel sito di Nati dallo Spirito. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Signore Gesù Cristo, tu hai rallegrato tutta l’umanità nei tuoi discepoli che sono stati testimoni oculari della tua resurrezione, hai medicato i loro cuori tristi e in lacrime e, mediante la tua resurrezione dai morti, ci hai donato una gioia che nessuno può toglierci. Che cosa è capace di rattristare il cuore dell’uomo se non la morte, notizie di morte e tutto ciò che è mortifero? Ma ecco, tu, Signore, hai calpestato la morte il giorno in cui sei risorto e ci hai donato, Sovrano, la vita eterna dopo che eravamo morti. A coloro che erano nei sepolcri hai donato la vita. Sei risorto e ti sei mostrato per dimostrare al mondo che la resurrezione è una verità che agisce efficacemente. Figlio di Dio, hai rallegrato tutta l’umanità e hai fatto risorgere i morti dalle tombe. Ti ringraziamo, Dio nostro, per questa resurrezione con la quale hai tolto ogni disperazione dal cuore dell’uomo. Dopo la resurrezione e nella resurrezione, nessun uomo può più disperare: il più grande peccatore, chiunque dica “Sono disperato”. Per la disperazione non c’è posto alcuno nella tua resurrezione. Una resurrezione che si estende tra cielo e terra e che porta, sulle sue ali, le persone più deboli, tutti i peccatori della terra, tutti coloro che hanno raschiato il fondo dell’esistenza. Ecco, tu li innalzi fin nell’alto dei cieli. Sì, Signore nostro, ti rendo immensamente grazie per la tua resurrezione con la quale hai tolto per sempre la disperazione dai nostri cuori. Ti ringraziamo, amato Gesù, per la resurrezione con la quale hai distrutto ogni paura, paura della morte, paura di tutto ciò che è mortifero. Che cosa in terra, Signore, che cosa su tutta la terra terrorizza l’uomo più della morte e di ciò che a essa conduce? Ed ecco, Signore, con la tua resurrezione hai distrutto, hai annichilito la morte perché dopo la tua resurrezione non c’è più morte. Nella tua resurrezione non c’è più posto per la morte. Ecco, tu ci hai donato la tua resurrezione perché sia in noi e per noi da ora e per sempre. Quanto ti ringraziamo, amato Gesù, per la tua resurrezione con la quale hai dimostrato che l’amore non avrà mai fine. Ci hai donato il coraggio, un incredibile coraggio, di amare e di amare senza misura. Sì, Signore, amiamo, amiamo infinitamente e senza riserve. Grazie Signore per la resurrezione che, per fede, è divenuta per la Chiesa il suo mistero dei misteri e il mistero dei cuori di coloro che ti temono. Grazie, Signore, per la resurrezione che è divenuta il mistero di ogni anima e della Chiesa, mistero d’amore che, sprigionato in te, abita in ogni cuore che si apre al tuo amore. (Matta El Meskin, Omelia pasquale del 1974).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Aprile 2015ultima modifica: 2015-04-14T22:08:49+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo