Giorno per giorno – 06 Febbraio 2015

Carissimi.
“Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi. Altri invece dicevano: È Elìa. Altri ancora dicevano: È un profeta, come uno dei profeti. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!” (Mc 6, 14-16). L’attività di Gesù e le domande che essa suscita circa la sua identità offrono all’evangelista lo spunto per offrirci notizie dettagliate sulle ultime ore di Giovanni Battista, di cui fino ad ora si sapeva solo che era stato arrestato (Mc 1, 14). Stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, dona Nady, introducendo la riflessione sulla Parola, suggeriva che Giovanni è precursore di Gesù anche nella morte. Ma precursore anche di ogni altro testimone, che non si lascia intimorire dalle minacce, né accetta di recedere dalle esigenze alte che gli pone l’affermazione o la denuncia della verità. E, di questi testimoni, è ricca anche la storia più recente di questo nostro Continente, della Chiesa brasiliana, e persino della nostra diocesi. Ma, per noi, che non viviamo più in tempi difficili, se non altro per la libertà che nessuno ci contesta di professare la nostra fede e di praticare la nostra religione, cosa può voler dire questo vangelo e la morte del profeta? Beh, forse non dovremmo essere così ottimisti: morti, uccisi con violenza, non immediatamente per qualche affermazione di fede, ma per le implicazioni che essa ci impone in ordine alla fraternità, all’amore e alla giustizia, se ne registrano ancora, e non poche. E tuttavia, è, probabilmente vero che nella realtà che ci è più vicina è un’altra la morte del profeta che dobbiamo temere: è una morte indolore, un lento e quasi impercettibile soffocamento della profezia che dovrebbe vivere in noi, che spegne, via via ogni capacità critica di leggere la realtà, cede all’informazione manipolata, si lascia sedurre e distrarre da valanghe di futilità, che sostituiscono, nascondendoli, i drammi e le tragedie che accadono sotto i nostri occhi, mettono a tacere le domande più vere circa il ciò che siamo chiamati a fare e, non ultimo, ci allontanano dalla vita delle comunità che fino a ieri costituivano lo spazio della nostra allegria, della nostra maturazione e delle nostre decisioni. Se dovessimo dare un nome alle nostre Erodiade e Salomè, lo diceva Maria Ferreira, potremmo fare quelli delle nostre reti televisive, con l’influenza nefasta e alienante che esse esercitano, non solo con i programmi più smaccatamente volgari, violenti o gridati – che sono ormai la regola – ma persino con quelli che si vorrebbero religiosi, che si rivelano spesso di una esteriorità e superficialità sconvolgenti. Noi riusciamo ancora ad opporre resistenza a questo processo involutivo e a coinvolgere altri?

Oggi ricordiamo le figure di Paulo Miki e compagni, martiri in Giappone, Ksenija di Pietroburgo, folle per Cristo, Sergio Mendes Arceo, voce dei poveri in America Latina, David Maria Turoldo, poeta e resistente.

Paolo Miki fu il primo giapponese accolto in un Ordine religioso cattolico. Nacque nel 1564 e ricevette il battesimo a cinque anni. Frequentò gli studi in un collegio della Compagnia di Gesù, dove scoprì la sua vocazione religiosa. Entrato in noviziato a 22 anni, proseguì gli studi con successo, diventando un profondo conoscitore di religioni orientali. Percorse il Paese in lungo e in largo, operando numerose conversioni. Il potere politico-militare che in un primo momento aveva dimostrato un atteggiamento tollerante verso i cristiani, improvvisamente mutò registro, dando inizio a violente campagne persecutorie. Paolo Miki, arrestato nel dicembre 1596 a Osaka, trovò in carcere alcuni missionari, tre gesuiti e sei francescani, con 17 laici giapponesi. Insieme a tutti loro, venne crocifisso su un’altura presso Nagasaki.

Della vita di Ksenija Grigorievna Petrova abbiamo solo poche notizie. Sappiamo che era nata intorno al 1720 in una nobile famiglia di Pietroburgo e che ancor giovane aveva sposato il colonnello Andrea Fedorovic. A ventisei anni era rimasta vedova, in seguito alla morte improvvisa del marito. Sconvolta da questa perdita, abbandonati i lussi mondani, Ksenija scelse di vivere la vita degli “jurodivyc”, i “folli per Cristo”. Distribuite le sue sostanze ai poveri, rinunciò al proprio nome e volle essere chiamata con quello del marito. Poi, vestita degli abiti di questi, cominciò a vagare per le vie di Pietroburgo, recandosi a pregare nelle campagne circostanti, a contatto con la natura. La sua mitezza, i suoi atteggiamenti bizzarri, la povertà delle sue vesti, se in un primo momento, le procurarono la derisione e il disprezzo della gente, le conquistarono poi la simpatia e la devozione di molti. Ksenija visse questa condizione di “folle per Cristo” per più di 40 anni, fino alla morte, avvenuta presumibilmente nel 1803. La sua memoria fu fissata dalla Chiesa ortodossa russa il 24 gennaio del calendario giuliano, che corrisponde al nostro 6 febbraio.

Sergio Mendes Arceo, nato nel 1908 in Messico, da giovane voleva diventare un matematico, ma optò poi per il sacerdozio. Ordinato a Roma nel 1932, dopo aver conseguito il dottorato all’Università Gregoriana, fece ritorno in patria, dove fu per alcuni anni professore e direttore spirituale del seminario, finché fu nominato vescovo di Cuernavaca, nel 1952. Si aprì da allora, lentamente, il suo processo di conversione al mondo dei poveri. Le sue innovazioni coraggiose sollevarono le critiche e l’ostilità aperta degli ambienti più conservatori. Chiamato a Roma, rifiutò di rispondere alle domande del Santo Ufficio, chiedendo e ottenendo di essere ricevuto dal papa. Paolo VI lo accolse freddamente, ma un’ora e mezzo di colloquio bastarono ad aprirgli gli occhi su quell’uomo critico, libero e cercatore della giustizia. Tornato nella sua diocesi, si sentì confermato nell’opzione dei più poveri ed esclusi. Nei conflitti operai, studenteschi e contadini non fu mai neutrale, ma sempre di parte, a fianco delle vittime della violenza strutturale. Così come appoggiò, con l’amicizia critica di cui era capace, le esperienze cubana e nicaraguense. Nel 1983, al compimento dei 75 anni, lasciata la diocesi, si ritirò nel villaggio nahua di Ocotepec, dove continuò a celebrar messa nella sua parrocchia, lavorando dodici ore al giorno. Fino alla morte, che lo colse in questo giorno, nel 1992.

Giuseppe Turoldo nacque nel 1916 a Coderno, in Friuli nella famiglia poverissima di Giovanbattista e Anna Di Lenarda. Entrato nell’Ordine dei Servi di Santa Maria, fece il 2 agosto 1935 la sua prima professione religiosa, assumendo il nome di Davide Maria, e, il 19 agosto 1940, fu ordinato sacerdote, svolgendo il suo ministero a Milano nel convento di San Carlo al Corso e come predicatore in duomo, fino al 1953. “Esiliato” per volere della curia romana, potè far ritorno in Italia, con l’avvento di papa Giovanni XXIII, scegliendo di stabilirsi nella millenaria abbazia di S. Egidio nei pressi di Sotto il Monte (Bg), dove restò fino alla morte. Socialmente e politicamente impegnato, fece suo il comando evangelico di “essere nel mondo senza essere del mondo”, traducendolo in “essere nel sistema senza essere del sistema”. Turoldo fu il poeta cristiano che più d’ogni altro nel nostro secolo espresse la passione per il contrasto, lo stare fermamente dentro la Chiesa ma nello stesso tempo starvi criticamente. Con Padre Balducci, Don Milani, Don Dossetti, Don Mazzolari e altri, fu uno degli esponenti più rappresentativi di un rinnovamento del cristianesimo e assieme di un nuovo umanesimo sociale. Morì dopo una lunga malattia il 6 febbraio 1992, il giovedì della quarta settimana del Tempo comune, in cui la liturgia propone ai fedeli il racconto della morte del re David. Il card. Martini, che già in una cerimonia pubblica aveva voluto chiedergli scusa a nome della Chiesa per le persecuzioni subite, officiò le sue esequie.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 13, 1-8; Salmo 27; Vangelo di Marco, cap.6, 14-29.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica che professano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

È tutto, per stasera. Noi vi lasciamo a una poesia di David Maria Turoldo, dal titolo “Fa’ di me un fiume”. Tratta dalla raccolta “O sensi miei… Poesie 1948-1988” (Rizzoli), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Fa’ di me, Signore, un fiume / un fiume ampio, disteso, / che dal Monte si snodi flessuoso: // e poi si allarghi sulla pianura / e sfoci e ritorni a perdersi / dolcemente nel tuo mare. // Un fiume che raccolga tutte le acque / della tua divina Ispirazione, / le impetuose acque cui si dissetarono / i profeti, le calme / amate acque della Vergine e dei santi: / l’acqua della fonte zampillante… // E sia un unico fiume: il fiume / irrorato dal fiotto / ininterrotto di sangue e acqua / che scorre dalla ferita / sempre rossa del tuo costato. // E raccolga l’infinito sangue / che scende dagl’innumeri patiboli, / il pianto muto delle madri / dietro gli stendardi dei figli uccisi / – nuove icone sul mondo -, / in processione da capitale a capitale. // Sia così, Signore! // (David Maria Turoldo, Fa’ di me un fiume)

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Febbraio 2015ultima modifica: 2015-02-06T22:02:16+01:00da fraternidade
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