Giorno per giorno – 05 Febbraio 2015

Carissimi,
“Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche” (Mc 6, 7-9). Stasera, ci dicevamo che, fossimo stati al posto di Gesù, dopo quello che potremmo chiamare lo scacco di Nazareth, probabilmente avremmo tirato i remi in barca, e avremmo trovato di meglio da fare. Lui, no. Non desiste, perché, proiettato com’è sul progetto di Dio, non ha proprio tempo di ripiegarsi su di sé e rammaricarsi per quelle che per il nostro amor proprio costituirebbero insopportabili offese, ma che per Lui erano al più motivo di un certo stupore (Mc 6, 6a). E così chiama altri ad andare con Lui. E li spedisce subito in missione. È curioso che Marco non ci racconti cosa li abbia mandati a dire, ma ci dica “come” dovevano andare. Come Lui. Senza garanzie di sorta. Senza pane, né sacca, né denaro. Che sono simboli, ancorché modesti, di quegli idoli dell’accumulazione cui siamo sollecitati ogni volta ad affidare le nostre vite. La missione dei discepoli di Gesù non può che essere allora il contrario. Gli altri sono ovviamente liberi di pensarla diversamente: che facciano pure le loro scorte, accrescano le loro tenute, allarghino le loro dispense e le loro esigenze, moltiplichino i conti in banca e le loro carte di credito (che non proclamino però che tutto questo è frutto delle benedizioni di Dio, né espressione della sua volontà, quando, a guardare bene, è sempre conseguenza di un’ingiustizia, di una rottura del patto con Lui, che si è verificata a monte e che perdura nel presente). I discepoli di Gesù (e, perciò, anche le sue chiese e comunità) devono essere altro. Se fossero, se fossimo, altro, non avremmo bisogno di dire nulla, neppure di omelie nella messa della domenica. La gente capirebbe subito. Come capiva subito Gesù. E lo seguiva appassionata. O fuggiva a gambe levate. La nostra vita a cosa dà spazio, nel nostro piccolo: all’accumulazione o alla condivisione? Non solo delle cose, ma di noi stessi, del nostro tempo.

Il nostro calendario ricorda oggi Pedro Arrupe, gesuita, profeta di una Chiesa al servizio degli ultimi e degli esclusi, e Andrea Santoro, testimone del dialogo interreligioso e martire in Turchia.

Pedro Arrupe era nato a Bilbao, nel Paese Basco, il 14 Novembre 1907. A diciannove anni, interruppe gli studi di medicina all’Università di Madrid per entrare nella Compagnia di Gesù. Ordinato sacerdote il 30 luglio 1936 in Olanda, si recò negli Stati Uniti per concludere gli studi di teologia e nel 1938 fu inviato in Giappone, dove restò per ventisette anni. Rettore del noviziato di Nagatsuka, alla periferia di Hiroshima, fu testimone dell’esplosione atomica, il 6 agosto 1945. Fu provinciale della provincia nipponica dal 1958 fino al 22 maggio 1965, quando fu eletto generale della Compagnia di Gesù, potendo così partecipare ai lavori conclusivi del Concilio Vaticano II. Dal 1967 fu, per cinque mandati consecutivi, Presidente dell’Unione dei Superiori Generali degli ordini religiosi. Venne anche nominato membro della Sacra Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e del Consiglio Generale della Commissione per l’America Latina. La riflessione che svolse aiutò in maniera determinante i gesuiti a capire la loro missione come un servizio alla fede che esige la lotta per la giustizia. I suoi innumerevoli viaggi gli permisero di rendersi conto che una delle ragioni dell’incredulità contemporanea è rintracciabile nello scandalo dell’ingiustizia sociale, davvero eclatante in numerosi paesi del Sud del mondo. Le incomprensioni di cui fu ripetutamente vittima negli ultimi tempi del pontificato di Paolo VI e all’inizio di quello di Giovanni Paolo II, a causa dell’impulso nuovo e del rinnovamento coraggioso impressi alla maniera d’essere dell’Ordine, lo portarono, nel maggio del 1980, alla decisione di dimettersi, ma il papa gli chiese di soprassedere. Dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito il 7 agosto 1981, costringendolo all’inattività, il 3 settembre 1983, la 33ª Congregazione Generale della Compagnia ne accolse le dimissioni. Padre Arrupe morì a Roma il 5 febbraio 1991.

Andrea Santoro era nato il 9 settembre 1945 a Priverno in provincia di Latina, terzo figlio di una famiglia umilissima. Entrato in seminario giovanissimo, fu ordinato sacerdote il 18 ottobre 1970. Svolse la sua attività pastorale nei quartieri popolari della periferia di Roma, conosciuto per la sua passione e dedizione ai poveri e per la sua vita povera. Dopo due soggiorni di studio in Medio Oriente, dove ebbe modo di approfondire la spiritualità del piccolo fratello universale, Charles de Foucauld, nell’anno 2000, chiese ed ottenne dalla sua diocesi di essere inviato in Turchia come sacerdote “fidei donum”. Visse dapprima a Şanlıurfa (l’antica Edessa) e poi, dal 2003, a Trabzon (Trebisonda), dove venne coltivando l’amicizia con la gente del posto. Di cui, anche con l’aiuto della lingua turca, appresa a fatica, si sforzò di capire il mondo, la cultura e la fede. Non mancando di far conoscere, a chi lo desiderasse, la sua. Mantenne vive le relazioni con la chiesa d’origine, trasmettendo ad essa i frutti della sua singolare esperienza e contribuendo così a favorire concretamente il dialogo interreligioso. Il 5 febbraio 2006, mentre pregava nella chiesa di Trabzon, dopo aver celebrato l’Eucaristia domenicale, venne ucciso con due colpi di pistola. Per il delitto fu processato e condannato un giovane diciassettenne.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap.12, 18-19. 21-24; Salmo 48; Vangelo di Marco, cap.6, 7-13.

La preghiera del Giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto. Noi vi si lascia al brano di un intervento tenuto da Pedro Arrupe a Valencia, al Congresso degli ex-alunni della Compagnia di Gesù, il 31 luglio 1973, dal titolo: Uomini per gli altri. Che è ciò che, a ben vedere, ci richiede il nostro battesimo e ciò che significa l’essere chiesa. È il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Come l’amore di Dio e l’amore degli uomini si fondano insieme nell’insegnamento di Cristo, così anche si fondono e praticamente si identificano l’amore e la giustizia. “L’amore, dice il Sinodo, im¬plica un’assoluta esigenza di giustizia, ossia il ri-conoscimento della dignità e dei diritti del pros¬simo” (Si¬nodo dei Vescovi 1971, La giustizia nel mondo, pag. 14). Come si può amare ed insieme essere ingiusti con la persona che si ama? Sottrarre la giustizia all’amore significa distruggere quest’ul-timo nella sua stessa essenza. Non c’è amore, se non si considera e non si riconosce l’amato come persona, rispettandolo nella sua dignità con tutto ciò che essa esige. Anche applicando il concetto romano di giustizia, di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, un cristiano non può non dirsi debitore di amore verso tutti gli uomini, compresi i nemici. “Non abbiate verso alcuno debito di sorta, scrive San Paolo (Rom 13, 10), eccetto quello di un mu¬tuo amore”. Come non possiamo dire che amiamo Dio, se non amiamo l’uomo, così neppure possiamo dire che amiamo gli uomini, se il nostro amore non si trasforma in giustizia. E per giustizia si intende non il semplice “adempimento” di un dovere indi¬viduale, ma anzitutto un atteggiamento costante di rispetto per tutti gli uomini, non trattandoli da stru-menti a proprio vantaggio; inoltre un impegno deciso di non profittare di situazioni di potere e di privilegio – a cui corrispondono altrettante for¬me di oppressione – ricordando che anche profittandone passivamente si diventa taciti complici dell’ingiustizia; e infine un comportamento non solo di condanna, ma anche di opposizione contro l’ingiustizia, pronti a collaborare per lo smantellamento delle strutture ingiuste, prendendo partito per i deboli, gli oppressi e gli emarginati. Questa giustizia attiva e liberatrice, che spinge a eliminare l’ingiustizia anzitutto dalla propria vi¬ta, non ha nulla che vedere con l’odio vendicativo di chi, sentendosi oppresso, reagisce contro l’op¬pressore. Chi pratica questo tipo di giustizia non ha nulla da guadagnare in questa vita, perché da una parte egli per primo dovrà privarsi dai vantag¬gi che permettono le strutture ingiuste, e dall’altra la sua solidarietà coi deboli gli attirerà, come a Cristo, la persecuzione dei potenti. É chiaro che nessuno può fare tutto questo, se non è sostenuto dall’amore, amore verso gli uomini e amore – tan¬te volte anonimo – verso Dio. (Pedro Arrupe, S.J., Uomini per gli altri).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Febbraio 2015ultima modifica: 2015-02-05T22:09:46+01:00da fraternidade
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