Giorno per giorno – 07 Dicembre 2014

Carissimi,
“Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1, 1). Il libro di Genesi, il primo della Bibbia, si apre con la stessa parola che, secondo l’uso ebraico ne costituisce anche il titolo: “Bereshit”, “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Solo che i rabbini insegnano a non intenderla in senso temporale, ma causale: “A causa del principio”. E il Talmud (T.B. Pesachim 68) insegna che il “principio” è la Torah, cioè la parola di Dio, e quanto essa esprime: il dono della vita che nasce dal suo desiderio di amare. È per questo che Dio crea il cielo e la terra ed ogni altra cosa. E poi se ne prende cura. Anche il vangelo di Giovanni ha lo stesso titolo, e si apre con: “In principio era la Parola” (Gv 1, 1). Cioè, a fondamento di tutto c’è la Parola di Dio, la parola che è Dio. Che ha preso corpo nella storia di Gesù ed ha abitato tra noi. Marco, ben prima di lui, aveva già dato al suo, di vangelo, un titolo simile: “Inizio, fondamento, principio della buona notizia che è Gesù, il figlio di Dio”, il volto umano di Dio. Se, quindi, vogliamo conoscere qualcosa di Dio e del perché esso sia per noi una bella, gioiosa, appassionante notizia, dobbiamo conoscere Gesù, e quel libretto che, assieme agli altri, ce ne comunica l’essenza. Perché, poi, fatto nostro quello stesso principio – che è servizio, accoglienza, misericordia, dono di sé, perdono – sappiamo renderci ogni giorno che passa un po’ più simili a Lui e tornare a incuriosire e, chissà, magari pure a stupire un po’ questo nostro mondo sempre più diffidente, triste, sfiduciato. Ma, forse, segretamente, non del tutto rassegnato a che davvero nulla debba poter cambiare. È l’aria di Avvento che spira. Approfittiamone, per fare qualcosa.

I testi che la liturgia di questa 2ª Domenica d’Avvento propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, 40,1-5.9-11; Salmo 85; 2ª Lettera di Pietro cap. 3,8-14; Vangelo di Marco, cap. 1,1-8.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Il nostro calendario ci porta oggi la memoria di Ambrogio, pastore e padre della Chiesa, e di Henri Le Saux (Swami Abishiktânanda), profeta di macroecumenismo.

Ambrogio era nato a Treviri, nella Gallia, verso il 339. Figlio del governatore romano in servizio in quella città, aveva studiato diritto e retorica, e a trent’ anni era già prefetto di Milano. Alla morte del vescovo ariano della città, Aussenzio, nacquero gravi disordini tra i fedeli riuniti per la nomina del successore. Ambrogio seppe intervenire con autorità e fermezza per ricondurre la folla alla calma. Ma proprio questo suo intervento fece sì che la folla lo additasse e acclamasse come nuovo vescovo. (Erano, questi, tempi in cui i semplici fedeli contavano ancora nell’elezione dei loro pastori). Benché riluttante, in quanto, tra l’altro, solo catecumeno, Ambrogio venne nondimeno prontamente battezzato, ordinato e consacrato, assumendo la guida della sua Chiesa il 7 dicembre del 374. Nella sua nuova funzione, orientò i suoi studi verso la teologia, immergendosi nella lettura delle Scritture e dei Padri della Chiesa, senza per altro abbandonare la formazione umanistica e giuridica già acquisita. Divenne un grande vescovo, pieno di amore per i suoi fedeli, soprattutto per i più poveri. Denunciò duramente la crudeltà di cui aveva dato prova l’imperatore Teodosio, massacrando settemila persone a Tessalonica, impedendogli di tornare a partecipare al culto senza una previa, prolungata e pubblica penitenza. Più problematici furono altri episodi che lo videro protagonista e che ne misero in luce l’animosità e l’intolleranza nei confronti di quanti si trovavano a praticare una religione diversa, pagani, eretici, ebrei che fossero. Dio solo sa se abbia potuto rendersi conto della loro incompatibilità con la parola dell’Evangelo. Lasciò numerosi scritti, di grande ricchezza dottrinale. Morì il il Sabato santo, 4 aprile del 397.

Nato a Saint Brac, in Bretagna (Francia) il 30 agosto 1910, Henri Le Saux divenne monaco benedettino nel 1929. Desideroso di vivere il monachesimo in forma più semplice e radicale, nel 1948, si recò in India. Qui, attraverso la meditazione delle Upanishad e l’ incontro con maestri come Ramana Maharshi e Gnânânanda, scoprì la filosofia advaita (non-dualista) e, con il prete francese Jules Monchanin, inaugurò, nel 1950, sulle rive del fiume Kaveri, un ashram dedicato alla Trinità, chiamandolo in sanscrito Saccidananda (Sat, cioè essere, Cit, conoscenza, Ananda, beatitudine). In seguito, soprattutto dopo la morte di Monchanin, si moltiplicarono tuttavia i suoi ritiri nelle grotte del monte Arunachala, che lo portarono a lasciare l’ashram per diventare monaco itinerante e mendicante nella più pura tradizione indiana, con il nome di Abhishikânanda (che significa “beatitudine nel Cristo Signore”). Morì a Indore, il 7 dicembre 1973.

Bene, è tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una preghiera di S. Ambrogio, che potremmo fare nostra. Tratta dal suo 2º Libro su “La Penitenza”, è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Volesse il cielo che ti degnassi di accostarti a questo mio sepolcro, o Gesù, e mi lavassi con il tuo pianto! I miei occhi, infatti, si sono inariditi, le mie lacrime non bastano a lavare le mie colpe. Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno che tu per un poco versi lacrime per me, mi chiamerai fuori dalla tomba del corpo e dirai: “Esci fuori”. Pronunzierai queste parole, affinché i miei pensieri non siano in catene nel carcere della carne, ma ne escano fuori verso Cristo, possano spaziare alla luce, così che io non mediti le opere delle tenebre, ma della luce. Chiama, dunque, fuori il tuo servo. Anche se avvinto dai legami del peccato, con i piedi incatenati, con le mani strette da nodi, anche se per sempre sepolto ai pensieri e alle “opere morte”, se mi chiamerai, uscirò fuori libero. Sarò “uno tra quelli che siedono a mensa” al tuo banchetto. Tutta la tua casa emanerà la fragranza del prezioso profumo, se custodirai chi ti sei degnato di riscattare. Mi hai chiamato, perché impari a condolermi di tutto cuore dei travagli del peccatore. Mi hai chiamato, perché, ogni volta che si tratta della colpa di uno che è caduto, senta di lui pietà e non lo riprenda con durezza, bensì provi dolore e pianga. Ci metteremo così nella condizione che Gesù o qualcuno dei discepoli non dica di noi: “Tu osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Non vergognamoci, perciò, di ammettere che la nostra colpa è più grave di quella di chi, a nostro giudizio, deve essere sottoposto ad accusa. Che io, dunque, non gioisca per la colpa di nessuno, bensì ne provi dolore! Poiché chi esulta per la rovina degli altri, tripudia per la vittoria del diavolo. Addoloriamoci, dunque, allorché sentiamo che è andato in perdizione un uomo “per cui Cristo è morto” che non trascura neppure “la pagliuzza nella messe” (Ambrogio di Milano, La penitenza, Libro II, 8).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 07 Dicembre 2014ultima modifica: 2014-12-07T22:58:34+01:00da fraternidade
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