Giorno per giorno – 12 Novembre 2014

Carissimi,
“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (Lc 17, 15-17). Era un samaritano. Appartenente, cioè, nella visione di un buon giudeo, a una popolazione infida, mezzo pagana, da secoli ostile e ostilizzata. A cui, però, un destino comune nella disgrazia non aveva impedito di aggiungersi ad altri nove, giudei loro, per sopravvivere in qualche modo alla loro condizione di emarginazione. Dieci è anche per gli ebrei il minian, il numero minimo richiesto per potere fare la preghiera pubblica, e, per quei dieci, che pregano Gesù, era il primo esperimento di preghiera ecumenica – ciò che non riesce ai puri di tutte le religioni, per la paura di contaminarsi, riesce invece agli impuri, e il buon Dio, che Gesù ci rivela, non guarda troppo per il sottile, e guarisce tutti: fedeli e infedeli. Diversamente che razza di Dio sarebbe a preoccuparsi solo dei suoi. E lì viene la sorpresa: i fedeli, obbedienti del resto alla parola di Gesù, se ne vanno al tempio, per ricevere dai loro sacerdoti l’attestato di guarigione, e offrire magari la loro bella testimonianza ai loro correligionari: guardate come è buono Dio con noi. L’infedele, che solo soletto, se ne stava andando dai suoi sacerdoti sul monte Garizim, lungo la strada, si ferma, si vede guarito, e si dice: prima di tutto, devo tornare a ringraziare quell’uomo. E torna sui suoi passi. E si getta ai piedi di Gesù. Il nemico, che gli ha rivelato il suo Dio come amico. E Gesù che si dice: perdinci, ma erano dieci, se ne sono persi nove? No, non si erano persi, forse sono solo un po’ lenti, si prenderanno il loro tempo, ci penseranno su, e poi, un giorno o l’altro arriveranno a capire il come è di Dio. Aprendosi alla dimensione della gratitudine. Che non è che Dio ne abbia bisogno. Ne abbiamo noi bisogno. Per accedere alla fede che salva. Se io scopro il dono di Dio, con cui egli mi libera dal male e si dona a me, come minimo, per dimostrargli la mia gratitudine entrerò in questo sua maniera di essere, liberando a mia volta dal male gli altri e facendo loro dono di me stesso. Questo scoprì, quel giorno, il samaritano mezzo-pagano del racconto. Questo non scoprirono, i nove fedeli, che si accontentarono di essere stati guariti loro.

Oggi il calendario ci porta le memorie di Nicolas Tum Quistan, martire in Guatemala, e di don Michele Do, cercatore instancabile di Dio. Per entrambi non disponiamo di molti particolari biografici, ma è comunque quanto basta.

Indigeno del villaggio di Chipaj, nel Quiché, Nicolas Tum Quistan era catechista e ministro dell’Eucaristia. Nonostante il decreto delle autorità militari che proibiva le Celebrazioni della Parola, Nicolas ritenne importante continuare e ripeteva sempre: “In questo tempo di persecuzioni abbiamo bisogno più che mai di cibarci del Corpo di Cristo perché ci dia forza”. Per questo, ogni volta che poteva, raggiungeva la parrocchia più vicina per prendere e portare con sé il Pane eucaristico, nascosto tra il miglio e i fagioli. Un giorno l’esercito arrivò alla sua casupola per arrestarlo. Implorò: “Uccidetemi qui, non portatemi via”. I soldati gli spararono e se ne andarono. Ferito a morte, lasciò alla sposa e ai figli un ultimo messaggio: “Pregate Dio, perché avrete molto da soffrire. Non piangete per me, perché io muoio, ma risorgerò”. Era il 12 novembre 1980.

Michele Do era nato a Canale, nei pressi di Alba (Cuneo), il 13 aprile 1918. Ordinato prete il 21 dicembre 1941, dopo gli studi di teologia nel seminario di Alba e nell’Università Gregoriana, lasciò l’insegnamento in seminario, per ritirarsi in montagna, nella frazione di St. Jacques di Champoluc (Aosta), dove visse come rettore della piccola chiesa locale, ma dando nel contempo conferenze, predicando ritiri, animando incontri, finché, vecchio di anni, ma non di spirito, si trasferì nella piccola fraternità Casa Favre, che sorge sulle pendici del monte, sopra lo stesso villaggio, aperta all’accoglienza di quanti sono in ricerca. Fu, lungo la sua esistenza, compagno di cammino di David Maria Turoldo, Umberto Vivarelli, sorella Maria di Spello, Ernesto Balducci e di tanti altri, credenti e no, accomunati dalla sete di verità e di autenticità. “È stato una grande anima, uno spirito acceso dal fuoco vivo dello Spirito. Un cercatore instancabile di Dio”, come ha scritto Enrico Peyretti. Della chiesa aveva detto: “La Chiesa è cercare di avere una piccola luce dentro di noi e di metterla in comune per far nascere una ricchezza maggiore. Non è una soluzione ma una ricerca. […] Il primo ecumenismo non è la riconciliazione tra le chiese, ma con la Chiesa. Perché oggi il problema tocca la Chiesa in se stessa, come istituzione, e non solo le sue sbavature ed errori. Non discutiamo. Ne ho abbastanza delle discussioni. Invece conversiamo, mettiamo insieme le esperienze più vere, esprimiamo le cose profonde che ognuno sente. Nel discorso amico e nella preghiera emerge lo Spirito di Dio”. È morto sabato 12 novembre 2005 ad Aosta.

I testi che la liturgia del giorno propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera a Tito, cap.3, 1-7; Salmo 23; Vangelo di Luca, cap.17, 11-19.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti ricercano l’Assoluto della loro vita nella testimonianza per la pace, la fraternità e la giustizia.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di don Michele Do, tratto dal suo libro “Amare la chiesa” (Qiqajon). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Le strutture della chiesa di Gesù sono strutture dell’esperienza spirituale. Sono strutture ontologiche, non strutture giuridiche: segnano l’essere di ogni discepolo. Sono modi di essere e di vivere, momenti eterni della vita dello Spirito così come traspaiono e si esprimono nella vita di Gesù. Sono questi modi di essere e di operare i momenti costitutivi della chiesa. Se scompaiono, scompare la chiesa. Questa esperienza di fede che è alla base della chiesa e la costituisce come tale, non è qualcosa di astratto e impersonale, ma trova in Pietro e negli apostoli la sua visibilitá concreta. La chiesa non è e non vive se non sul fondamento posto da chi come Pietro e come gli apostoli fa proprio il cammino di Gesù. Non quindi pietre anonime e senza volto di un edificio esistente al di fuori di loro (e di noi), ma pietre vive che comunicano la ricchezza del loro spirito alle chiese che edificano. È a questa chiesa così strutturata che Gesù promette la capacità di resistere alle forze oscure degli inferi e infine la vittoria su di esse. “È questa la fede che vince il mondo” (cf 1Gv 5, 4). Coloro che vivono e fanno questa esperienza entrano già fin d’ora in una dimensione di esistenza dove ruggine e tignola non hanno più alcun potere (cf Mt 6, 19). Hanno in se stessi e la visione divina delle cose e la divina solidità dell’Eterno. Certo questa esperienza, come ogni fatto interiore, ha bisogno di una sua sacramentalità, di una struttura visibile. Anche l’amicizia, la cosa meno istituzionalizzabile, meno strutturata, più libera e creativa, ha bisogno di crearsi le sue liturgie, i suoi ritmi, le sue consuetudini, la sua disciplina. La vita spirituale ha una sua visibilità sacramentale. Il sacramento fa parte della natura dell’uomo. Virgilio accenna a questa realtà sacramentale dell’uomo con un verso stupendo: “Incipe puer risu cognoscere matrem” (“Incomincia, bambino, a riconoscere con un sorriso la madre”). Il sorriso della madre è il primo sacramento che l’uomo incontra sul suo cammino. Ogni grande esperienza spirituale si riassume e si esprime nel sacramento. Sacramento che, da una parte, è la trasparenza dell’evento interiore e divino, dall’altra, è alimento e viatico, come il pane di Elia, che sostiene il cammino dell’uomo verso il monte santo di Dio, l’Oreb (cf 1Re 19, 8). Gesù si è inserito con sobrietà in questa linea e ha assunto alcuni “segni” dell’esperienza religiosa ebraica, già carichi di tanta vita e di tanta storia, come ad esempio il battesimo e la cena. Cristo, che non è venuto ad abrogare, ma a portare a compimento, li ha assunti, questi segni, senza inventarli e li ha arricchiti di un nuovo significato e di una nuova presenza. (Michele Do, Amare la chiesa).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Novembre 2014ultima modifica: 2014-11-12T22:30:53+01:00da fraternidade
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