Giorno per giorno – 29 Luglio 2014

Carissimi,
“Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10 , 41-42). Le due donne e Lazzaro, loro fratello, erano gli amici di Gesù. A Betania (identificata con al-Eizarya, “luogo di Lazzaro”), un villaggio a tre chilometri da Gerusalemme, dove, ipotizzano gli studiosi, alloggiavano i pellegrini poveri che giungevano nella Città santa dalla Galilea, e dove, forse, c’era un’ospizio per malati. E questo giustificherebbe il nome di Betania, “Casa dei poveri” o “Casa dell’afflizione”. Come, qualche volta, sono anche le nostre città, o le nostre case. Dove il buon Dio avrebbe voglia di venire, di tanto in tanto, a rifarsi (e a rifarci, quando può) le ossa, se gli siamo amici e ci disponiamo ad accoglierlo. Come era successo quel giorno, di cui racconta il Vangelo. Istintivamente, ci dicevamo stasera, la nostra simpatia va a Marta, piena di entusiasmo, che corre qua e là, prepara una cosa e un’altra, non sa più cosa inventare per soddisfare l’ospite, e magari, alla fine, guadagnarsi anche solo un meritato elogio. Però anche Maria, è ciò che si vorrebbe essere e fare, se solo si potesse staccare dalle faccende che ci prendono, metterci cioè, lì, in silenzio, ai piedi, o anche nascosti, acquattati, se l’intimità non è così tanta, e berci ogni parola, e non perderci un momento della visione dell’Amico. Per il timore che la visita possa non ripetersi e allora cosa ci saremmo persi! Beh, a Gesù deve aver fatto piacere tutto il gran daffarsi di Marta e già pregustava i manicaretti che lei era solita preparargli. L’ospitalità, del resto, era una sorta di ottavo sacramento, a quel tempo, in quelle terre. E forse, qui da noi, è ancora qualcosa di simile. Sapeva il desiderio che anche lei aveva di stare con Lui. Anche noi, del resto, dietro tutto il nostro attivismo (quando ancora ce lo possiamo permettere), nascondiamo un desiderio più profondo, a cui spesso non abbiamo ancora imparato a dare nome. Ed è il Suo nome. E allora, Lui ci ferma. E ci chiama, due volte, perché cogliamo tutto il peso della sua tenerezza, con il nostro, di nome. Marta, Marta, vieni qui anche tu. Rinuncerò, per averti qui, alle leccornie che mi inventi ogni volta. Tu vali più di tutto. E così Marta sarà Maria. E capirà cosa vuol dire. E si porterà quell’incontro appresso per il resto della vita. E continuerà ad ascoltarlo e a parlargli in ogni cosa che farà. E la farà, evidentemente, meglio, perché sotto il Suo sguardo. Così anche noi. Solo a volerlo.

Oggi il calendario ci porta la memoria di Marta, Maria e Lazzaro, amici e ospiti del Signore; cui noi aggiungiamo quella di William Wilberforce, politico abolizionista, e quella di Yves Lescanne, amico dei “nanga mbôkô”, martire della strada, in Camerun.

Marta, Maria e Lazzaro erano i tre fratelli di Betania, a cui, secondo il Vangelo, Gesù voleva molto bene (cf Gv 11,5) e nella cui casa il Maestro soleva ospitarsi (cf Lc 10,38ss.): esempio di fede, di accoglienza pronta, di servizio generoso, di disponibilità all’ascolto. Sant’Agostino, parlando di loro, scrisse: “Nessuno di voi dica: Beati quanti ebbero la sorte di ospitare il Signore in casa loro […], perché, di fatto, voi potete avere un uguale privilegio, dato che lo stesso Signore affermò: – Ogni volta che farete ciò ad uno dei più piccoli tra i miei fratelli, è a me che l’avrete fatto” (Agostino, Discorso 103).

William Wilberforce era nato il 24 agosto 1759 a Hull, in Inghilterra nella famiglia del ricco commerciante Robert Wilberforce. Rimase orfano di padre all’età di nove anni e, diciassettenne, fu inviato a studiare al St. John’s College a Cambridge. Dove però, agli studi seri, preferì di gran lunga l’allegro e dissipato mondo che gli si offriva fuori dalle mura. Senza tuttavia particolari eccessi, tanto che riuscì, bene o male, a laurearsi. Non avendo granché voglia di seguire le orme paterne, quasi per scherzo decise di darsi alla politica. Fu così che, nel 1780 a soli ventun anni, si candidò e fu eletto alla Camera dei Comuni. Quello scherzo si sarebbe tradotto poi in serio impegno politico e sarebbe durato cinquant’anni. Il 15 aprile 1797, conobbe Barbara Ann Spooner, e la sposò sei settimane più tardi. Insieme ebbero sei figli. Nel frattempo, la sua vita di fede aveva conosciuto una svolta decisiva. Era successo che, dopo aver trascorso la sua giovinezza senza particolari interessi in materia di religione, durante un viaggio in Francia e in Italia con Isaac Milner, suo antico compagno di università, prese a leggere la Bibbia e a trovar tempo per la preghiera. Sicché al ritorno in patria, nel 1785, maturò la decisione di un cambiamento radicale nella sua vita, che ebbe riflessi profondi anche nella sua attività politica. Nel 1787 presentò alla Camera dei Comuni una mozione per l’abolizione del commercio degli schiavi. La battaglia sarebbe durata vent’anni, ma la sua costanza fu premiata: il 25 marzo 1807 lo Slave Trade Act entrò in vigore. Certo, abolito il commercio, restava però la schiavitù. E Wilberforce continuò per molti anni le sue campagne, volte ad eliminarla. Il 26 luglio 1833, già sul letto di morte, ebbe la gioia di sapere approvata la legge che l’aboliva definitivamente. Dopo tre giorni, la mattina del 29 luglio, William Wilberforce si spense.

Di Yves Lescanne sappiamo solo che era nato in Gironda, il 20 marzo 1940, ed era un “piccolo fratello del Vangelo”, la stessa famiglia di Carlo Carretto, di Arturo Paoli e dei nostri amici Yves, Gianluca, Alberto, Franco e Gabriele, della fraternità di Spello. Che ha le sue radici nella spiritualità di Charles de Foucauld. Yves viveva in Camerun, dove a partire dagli anni 70 aveva cominciato a occuparsi dei “nanga mbôkô”, i ragazzi di strada di Yaoundé, poi dei minori in carcere e di quelli che, scontata la pena, ne uscivano. Aveva così posto le basi della missione di quella fraternità. Quanti erano ragazzini allora lo ricordano duro e determinato a difenderli, ad aiutarli a ritrovare dignità e speranza, fino a rischiare spesso la vita per loro. Confidò una volta: “Forse soffriamo più noi a generare questi figli dal nostro cuore che le loro mamme dal ventre”. E ancora: “Questi problemi si risolvono in ginocchio”. Fu ucciso a colpi di scure la notte del 29 luglio 2002, a Maroua, nell’estremo nord del Camerun, da uno dei “nanga mbôkô” che la comunità aveva aiutato a trovare un lavoro, ma che poi aveva preso altre strade.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria che celebriamo e sono tratti da:
1ª Lettera di Giovanni, cap.4,7-16; Salmo 34; Vangelo di Giovanni, cap.11, 19-27.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

Ieri sera, l’avvistamento della prima sottilissima falce della luna nuova ha segnalato che, terminato il mese di Ramadan, siamo entrati nel mese di Shewal (1435 del calendario egiriano). È, dunque, per i nostri amici musulmani la festa Id al–Fitr, cioè, la Festa della Rottura [del digiuno], chiamata anche Id al-Saghir, la Festa Piccola. Durerà tre giorni, dedicati al ringraziamento, al perdono, alle benedizioni, alla misericordia e alla pace. Eid Mubarak!

E, prendendo spunto da questa festa, noi ci si congeda, offrendovi in lettura la preghiera di un mistico islamico, Yahyà al-Rāzi, vissuto nel sec. IX a Nishapur, nella regione corrispondente oggi all’Iran nord-orientale. La troviamo nel libro “Salmi Sufi. Canti della Spiritualità musulmana” (Icone Edizioni) ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dio mio, Signore mio, mia unica speranza, per Te consumo ogni mia azione. Dio mio, Ti invoco con il linguaggio della mia speranza, perché il linguaggio delle mie azioni è incapace di esprimere i miei sentimenti. Dio mio, se provengono da Te, come sono dolci i colpi quando imprimono il segno nel nostro cuore. Come sono squisite le conversazioni intime, quando da esse sorge la letizia interiore che vola verso di Te lungo le regioni dell’invisibile. Dio mio, se nel giorno della Risurrezione mi chiedessi: “Servo mio, che cosa ti ha sedotto di Me?”, “La Tua generosità nei miei confronti” risponderei. Ma se invece avrò meritato la Geena, lì, in mezzo ai tuoi nemici, racconterò che nel mondo io Ti amavo, perché Tu sei il mio Signore, l’Unico Bene per il quale potrei fare a meno di ogni altro bene. O Dio, nostro Dio, se mi salverai dall’inferno, sarà per la Tua clemenza; se mi condurrai all’eterno tormento, sarà in nome della Tua giustizia. Accetto tutto se viene da Te; perché Tu sei il mio Signore e io il Tuo servo. Dio mio, Tu sai che non posso sopportare l’inferno, e io so che non merito il Paradiso. A quale arguzia potrò ricorrere dunque, se non al riparo della Tua clemenza? Dio mio, mio Signore, mia gioia! La Tua bontà, sempre presente accanto a me, mi consola dell’indegnità delle mie azioni, anche se proprio per questo mi fa sentire più disgraziato… E la gioia di vedermi oggetto del Tuo favore mi distrae dalla bontà delle mie azioni, anche se in quella bontà sta la mia salvezza. Ma il godere di Te mi distrae dal godere di me stesso. (Yahyà al-Rāzi, Tu, Signore, sei il mio Unico Bene).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-29T22:26:00+02:00da fraternidade
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