Giorno per giorno – 09 Luglio 2014

Carissimi,
“Allora Gesù, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti immondi per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità” (Mt 10, 1). Il capitolo 10 del vangelo di Matteo, che si apre con la chiamata degli apostoli, riporta il secondo dei cinque discorsi in cui l’evangelista riassume l’insegnamento di Gesù. È quello che viene detto il Discorso missionario o apostolico, perché contiene le istruzioni relative a ciò che deve caratterizzare l’azione di coloro che, da quel momento, diventeranno i suoi più stretti collaboratori. E di quanti egli chiamerà a sé in futuro. Anche di noi, perciò, se un giorno ci siamo sentiti chiamati a seguirlo. Il nome che ci hanno imposto al battesimo è come se fosse stato pronunciato da Lui, per dirci: tu, proprio tu, con quel nome, sei disposto a venire con me? Ti farò operaio, operaia della mia messe? Certo, noi, per la maggior parte, non ci si capiva ancora nulla, ed è sperabile che almeno i nostri genitori e padrini capissero un po’ del guaio in cui ci stavano per mettere. In ogni caso, forse ancora un po’ troppo presto, lì da voi addirittura alle soglie dell’adolescenza, abbiamo avuto modo di confermare la nostra decisione di rispondergli di sì. E, a partire da lì, Lui ci ha dato il potere di combattere contro tutto ciò che minaccia la vita e aliena le persone. Se poi, noi, lo si sia usato, è un altro discorso. Forse, dovremmo provare a chiedercelo ogni sera cosa ne abbiamo fatto. Verificarlo, del resto, non è troppo difficile: che posto occupano per davvero Gesù e la sua prassi nella nostra vita?

Oggi ricordiamo Angelus Silesius, mistico tedesco del XVII secolo; Augustus Tolton, primo prete afroamericano negli Usa, e Bruno Borghi, primo preteoperaio in Italia; André Chouraqui, uomo dei tre mondi.

Johannes Scheffler nacque a Cracovia nel dicembre del 1624, figlio di Stenzel e di Maria Magdalena Henneman, entrambi luterani. Nel 1637 rimase orfano di padre e due anni più tardi gli morì la madre. Compiuti gli studi ginnasiali a Breslavia, nel 1643 si trasferì a Strasburgo e poi a Padova, per studiarvi diritto e medicina. È in questo periodo che prese a leggere autori mistici come Taulero e Meister Eckhart, che ne influenzarono la spiritualità. Nel 1649 ottenne l’incarico di medico di corte del duca Sylvius Nimrod von Württemberg in una cittadina nei pressi di Breslavia. Ma vi rimase solo tre anni a causa di un conflitto con il cappellano luterano di corte. Il 12 giugno 1653, Johannes aderì alla fede cattolica e assunse il nome di Angelus Silesius. Poco dopo fu nominato medico di corte dell’imperatore Ferdinando III e nel 1657 pubblicò gli scritti che aveva composto nel frattempo. Al fine di spogliarsi progressivamente dei propri beni, costituì fondazioni in favore di monasteri e di poveri. In quello stesso anno, venne ordinato sacerdote. Nel 1671 ottenne ospitalità in un monastero cistercense, dove trovò modo di sottrarsi agli attacchi che, dai tempi della sua conversione, gli venivano dagli ex-correligionari. Visse gli ultimi anni in assoluta povertà, dedito alla preghiera e alla contemplazione, morendo il 9 luglio 1677.

Augustus Tolton nacque, secondo di quattro figli, nella famiglia di una coppia di schiavi cattolici, Peter Paul e Martha Jane Tolton, a Ralls County, nel Missouri, il 1° Aprile 1854. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1861, il padre fuggì dalla proprietà e si arruolò nell’esercito dell’Unione al fine di lottare per la libertà della sua famiglia e per la fine dello schiavismo. Fu uno dei 180 mila negri che morirono durante la guerra. Martha Tolton a sua volta fuggì con i figli verso la libertà, attraversando il fiume Mississippi e stabilendosi a Quincy, nell’Illinois. Crescendo, il giovane Augustus manifestò il desiderio di essere prete, ma non si trovava un seminario disposto ad accoglierlo. Senza disanimare, egli studiò dapprima col suo parroco, poi, nel 1878, fu ammesso nella scuola gestita dai francescani a Quincy, dove rimase due anni, finché ottenne di potersi recare a Roma nel Collegio Urbano, il seminario della Congregazione di Propaganda Fide. Ordinato prete nel 1886, divenne il primo prete afroamericano negli Stati Uniti. Tornato nella sua diocesi, gli fu affidata una parrocchia di negri, ma il suo carattere, la sua preoccupazione per le reali necessità della sua gente, e le sue predicazioni lo resero presto popolare anche tra molti bianchi di origine tedesca e irlandese, che presero a frequentare la sua chiesa. Suscitando, neanche a dirlo, il risentimento e la gelosia degli altri parroci della zona. I quali nel giro di poco tempo riuscirono ad ottenere il trasferimento del “prete negro” a Chicago, dove divenne il primo pastore negro della città, profondendosi senza risparmio per la causa della sua gente e per la causa del Regno di Dio. Troppo, forse, per durare a lungo. Morì d’infarto, la notte del 9 luglio 1897, tornando da un ritiro. Aveva quarantatre anni.

Di Bruno Borghi abbiamo a disposizione solo pochi elementi biografici. Ne ricaviamo alcuni da un ricordo a lui dedicato a suo tempo da Adista. Cristiano e prete scomodo, fece parte, con La Pira, Balducci, Turoldo, Facibeni, Vannucci, Milani e altri, di una generazione che seppe animare e provocare salutarmente il panorama ecclesiale e politico italiano, a partire dagli anni cinquanta. Nato nel 1922, entrò nel seminario di Firenze dove fu compagno di studi di don Lorenzo Milani, con cui instaurò una duratura amicizia. Nel 1950, scelse di lavorare in fabbrica, desiderando “immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento”. Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una “Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina”, in cui denunciava l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit. Nel 1965, sempre con don Milani, intraprese una battaglia in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, allora fuori legge. Nel 1968, scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla comunità dell’Isolotto. In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Conobbe e sposò Agnese, da cui ebbe un figlio, Giovanni. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano. È morto il 9 luglio 2006, nella sua abitazione di Torri (Firenze).

Nathan André Chouraqui era nato l’11 agosto 1917 (per il calendario ebraico il 23 del mese di Av dell’anno 5677), a Ain-Témouchent in Algeria, nono dei dieci figli di Isaac Chouraqui e Meléha Meyer, entrambi ebrei sefarditi. Colpito da poliomelite a sette anni, dopo gli studi nel Liceo francese di Orano, si trasferìi a Parigi per studiarvi Diritto. Nel 1938 conobbe Colette Boyer, una musicista ammalata di tubercolosi, che sposò nel 1940 ad Ain-Témouchent nel villaggio natale, con una cerimonia ebraica, cui seguì, poco dopo, la conversione di lei all’ebraismo. Durante la seconda guerra mondiale, Chouraqui fu attivo nella Resistenza francese. Poi lavorò per qualche tempo come magistrato in Algeria. Nel 1948, Colette scelse, con il consenso ma anche con il comprensibile strazio del marito, di far ritorno alla Chiesa, restando tuttavia fedele al Credo di Israele. Entrò tra le Piccole sorelle di Gesù, dove sarebbe vissuta fino al 18 ottobre 1981, quando spirò tra le braccia di lui, accorso al suo capezzale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Intanto, nel 1951, Chouraqui aveva scelto di emigrare in Eretz Israel, stabilendosi a Gerusalemme, dove nel 1958, sposò Annette Lévy, che gli darà cinque figli. Da allora, dedicò tutta la sua vita a cercare le vie di un dialogo fruttuoso tra ebrei, cristiani e musulmani, i tre mondi in cui affondavano le radici della sua biografia. Traduttore e commentatore in francese della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento e del Corano, sapeva scorgere in essi la trama nascosta di un unico disegno divino che mira alla nascita di un uomo nuovo, libero dai condizionamenti e dalle schiavitu di sempre. Fu promotore di associazioni per il dialogo interreligioso e ambasciatore instancabile di un pensiero di pace nel mondo. Nel 1999 fu insignito del Premio Internazionale per il Dialogo fra gli Universi Culturali. André Chouraqui è morto a Gerusalemme il 9 luglio 2007.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.10, 1-3.7-8. 12; Salmo 105; Vangelo di Matteo, cap. 10, 1-7.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di André Chouraqui, tratto dalla sua “Lettre à un Ami arabe” (J. C. Lattès), scritta a ridosso della Guerra dei Sei Giorni, quando Israele non si era ancora ritirato dal Sinai, in cambio del riconoscimento del suo diritto ad esistere da parte dell’Egitto. Da allora, le cose sono cambiate solo di poco: il clima di sospetto e di paura, il cedimento alla logica della violenza e della prevaricazione, la negazione dell’altro, l’indottrinamento all’odio e al disprezzo, la cultura della vendetta e della rappresaglia indiscriminata, il pensiero che la forza debba avere necessariamente l’ultima parola, le condizioni di miseria e di frustrazione crescente in cui vive gran parte della popolazione palestinese, determinano ancora oggi le scelte politiche delle parti. Senza lasciare intravedere la speranza di un cambiamento. Anche se c’è dall’una e dall’altra parte chi continua a lavorare perché la pace avvenga. È questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Agli occhi del mondo, la vittima è diventata carnefice e noi siamo alla testa di un impero che va dalle pendici dell’Hermon al canale di Suez, dal golfo di Acaba alle rive del Giordano. Sicuri di noi stessi e dominatori, e per ciò stesso falsari e facinorosi che invertono la scala dei valori. Nietzsche stesso non riconoscerebbe più i suoi ebrei: da schiavi, eccoli improvvisamente promossi al rango di signori. Ma tutto ciò ha sorpreso e ferito anche noi: più che dominazione noi eravamo alla ricerca di libertà e di vita. La nuova immagine di noi stessi che ha stupito il mondo non cessa di turbarci: gli uni per l’ ebbrezza, gli altri per la nostalgia. La nuova situazione provoca uno scandalo universale, lo sconvolgimento di tutti i valori, degli stereotipi più inveterati. I più deboli, senza dubbio, si rifugiano dietro questa vittoria per sognare una soluzione che libererebbe per sempre Israele dai suoi nemici: conservare tutti i territori conquistati, situarsi in posizione di forza fino al crollo totale della resistenza araba e alla sua resa. Gli altri sognano la pace e la liberazione messianica: hanno fisicamente bisogno di vedere il leone pascolare a fianco dell’agnello e gemono dietro le visioni dei carri da guerra convertiti in vomeri. Dibattiti tragici e ridicoli, dibattiti da ebrei. Dentro le frontiere, noi, Israeliani, ci laceriamo nelle nostre contraddizioni e nelle nostre lotte intestine, sterilmente, come i nostri antepassati si strappavano la barba sulle sottigliezza del Talmud. Le nostre lacerazioni sfociano in un dibattito accademico, mentre, di fronte a noi, coloro che dovrebbero essere i nostri interlocutori sono bloccati dalla paura e dalla vergogna della loro sconfitta. Al passo che la tragedia si approfondisce, che gli attentati fanno sempre più vittime e che la repressione semina la paura, gli estremisti si rafforzano: Nasser, il grande sconfitto del giugno 1967, continua a predicare lo sterminio di Israele. Alcuni propagandisti arabi, più sfumati, cercano di distinguere tra genocidio e ciò che essi chiamano politicidio: non si tratta più di eliminare gli ebrei d’Israele, ma il loro Stato; come se quelli potessero sopravvivere a questo. Davanti a queste minacce che ci ricordano certe voci arabe del 1967 e quelle che, negli anni 40, annunciavano dei massacri definitivi, sentiamo elevarsi alcune voci di ebrei tremanti d’angoscia, che esigono dallo Stato d’Israele una difesa radicale delle nostre vite attraverso un’eliminazione violenta del terrorismo. Da un lato, si auspica una Palestina interamente araba, dall’altro non si attribuisce alcuna possibilita di sopravvivenza a Israele salvo che nel quadro di uno Stato ebraico che si estenda dalle pendici dell’Hermon fino alle rive del Giordano e del canale di Suez. (André Chouraqui, Lettre à un Ami arabe)

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-09T22:12:19+02:00da fraternidade
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