Giorno per giorno – 08 Luglio 2014

Carissimi,
“Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore” (Mt 9, 35-36). Basterebbe questo, ci siamo detti stasera, al termine di una giornata, in cui si sono incrociati gli echi di tragedie lontane, che ripetono pagine già scritte, di odio, violenza, vendetta e sangue, ad altri, in queste ore, in qualche modo sfortunatamente più vivi, di un dramma domestico, che traduce lo sconcerto e lo sconforto per una sconfitta (e che sconfitta!) su un campo di gioco – dato che di un gioco si tratta, anche se si chiama Campionato mondiale di calcio -, nei toni epici e retorici di un evento bellico, e, quel che è peggio, come si avverte da alcuni commenti della prima ora, in una, del resto prevedibile, biliosa polemica politica sul piano interno. Giocata anche su una finta compassione per problemi, ritardi e disfunzioni del Paese, da parte di settori della società che, con la loro brama di arricchimento e di privilegi, li hanno largamente determinati e poi moltiplicati nel tempo. E che, nell’approssimarsi della stagione elettorale, contano sulla memoria corta di chi è chiamato al voto. La compassione, dunque. Quella vera. E sulle cose che contano. Il vangelo di oggi ci richiamava su questo. Si era aperto con il racconto della guarigione di un muto che seguiva, in rapida successione, quella di due ciechi. Il vangelo insiste nel dire che Gesù guariva ogni malattia e infermità. E questa era la sua maniera di rendere presente il Regno. E dovrebbe essere anche la nostra, della Chiesa. Se è anche vero che noi non si potrà guarire ogni malattia, potremmo sempre però cominciare a prendercene cura, perché in questo c’è già un inizio di guarigione. La compassione più vera consiste nello “stare assieme” nella lotta contro il male. E quanti più si è, meglio è. Per questo Gesù ci chiede di pregare perché il signore della messe mandi altri operai. Neppure lui, che è Lui, riesce ad arrivare ovunque. Quanto al muto del racconto, stasera ci dicevamo che c’è una mutezza che è ben più diffusa di quella legata alla malattia. Ed è quella di coloro cui hanno tolto la parola. Che non sono in grado di farsi sentire, non possono rivendicare nulla, spesso solo perché i poteri hanno deciso così. Somo le vittime silenziose della storia. Noi possiamo aprire gli occhi per scorgerli e prestare loro la nostra, di parola, finché se la vedano restituita.

Oggi il calendario ci porta la memoria di Procopio, martire in Palestina.

Su Procopio, che lo storico Eusebio addita come primo martire della Palestina, disponiamo di un buon numero di racconti leggendari, ma di poche notizie storicamente accertate. Secondo queste, Procopio era nato nella seconda metà del III secolo, ad Aelia Capitolina (così i Romani avevano ribattezzato Gerusalemme, dopo la sconfitta dell’insurrezione guidata da Simon Bar Kochba, nel 132) e si era poi trasferito a Scitopoli (l’ebraica Beit She’an, all’incrocio tra la valle del Giordano e quella di Jezreel), dove era contemporaneamente lettore, interprete di siriaco ed esorcista. Dedito fin da giovanissimo ad una vita ascetica e allo studio della Parola di Dio, durante la persecuzione di Diocleziano, fu denunciato assieme ad altri compagni come cristiano e condotto a Cesarea, per essere interrogato dal governatore Firmiliano e del giudice Flaviano. Richiesto di sacrificare agli dei, si rifiutò. Invitato a fare delle libagioni ai due imperatori e ai due Cesari in carica, rispose, citando Omero “Una moltitudine di comandanti non è mai una buona cosa, ci deve essere un solo dominatore, un solo re”. E, per quel che lo riguardava, aveva scelto di porre la sua fiducia in Cristo. Pare che la risposta non piacque ai suoi giudici, dato che fu decapitato seduta stante.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Osea, cap.8, 4-7.11-13; Salmo 114b; Vangelo di Matteo, cap.9, 32-38.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

La memoria di Procopio, martire palestinese, di cui non abbiamo nessuno scritto, e la tragedia che vive non da oggi la popolazione del territorio di Gaza, vittima innocente di una lotta senza fine, che non lascia spazio alcuno alle ragioni della negoziazione, del dialogo e della convivenza pacifica, ci spinge a proporvi, nel congedarci, il brano di una lettera di Barsanufio e Giovanni di Gaza, due monaci del VI secolo. Ha per oggetto la carità, che vediamo bene quanto ci sia bisogno di tradurla in comportamenti personali, ma anche, ed è la sfida maggiore, in pratiche sociali e scelte politiche. È questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La carità verso il prossimo si manifesta in molti modi, e non soltanto nel dare. Ascolta come. Può capitarti che te ne vai da qualche parte con il prossimo e ti rendi conto che vorresti ricevere più onore di lui, invece di rallegrarti che egli riscuota la medesima stima che te. Così facendo, non lo consideri come te stesso. Ha detto infatti l’Apostolo: Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Se hai qualcosa da mangiare e noti in te la voglia di gustartela da solo, per ingordigia e non per bisogno, di nuovo non consideri il prossimo come te stesso. Vedi il fratello lodato e non ti congratuli con lui, perché non ricevile medesime lodi; invece, dovresti dire: “L’ elogio al fratello si estende a me, perché è un mio membro”. Anche in tale occasione tu non hai amato il prossimo tuo come te stesso. Ciò vale per tutti i casi analoghi. Ecco ancora un altro modo di considerare il prossimo come se stesso. Se apprendi dai padri la via di Dio e il tuo fratello ti interroga, non essere avaro nel mostrarti sollecito di lui e nell’aiutarlo. Ma poiché sai che è tuo fratello, digli quanto hai appreso, con timore di Dio e senza atteggiarti a maestro, cosa che non ti giova. La libertà è la verità espressa chiaramente. Buona perciò è la libertà, ma deve essere gestita nel timore di Dio. Se quando hai bisogno di qualcosa, non lo dici aspettan¬do che il tale o il tal’altro te lo dia da sé, ecco quello che accade: potrà darsi ch’egli ignori la tua necessità, oppure, saputala, se ne dimentichi; o anche, volendoti mettere alla prova, faccia così per vedere se hai pazienza. Ora avviene che tu ti sdegni contro di lui e così cadi in peccato. Se invece gli parli con franchezza, non succederà nulla di tutto questo. Tu però disponi bene il tuo pensiero fin da prima, per¬ché, se dopo aver chiesto ciò che cerchi non lo ottieni, tu non rimanga afflitto o indignato e cominci a mormorare. Dì piuttosto al tuo pensiero: “Probabilmente non potrà fornirmi quanto gli ho chiesto; oppure io non ne sono degno e perciò Dio non gli ha permesso di darmelo”. E bada di non incupirti per quel rifiuto, perdendo la libertà nei suoi riguardi, così da non osare chiedergli mai più nul¬la, quando la necessita lo richieda. Cerca di custodire sempre te stesso senza turbamento rispetto a quel rifiuto. D’altra parte, se uno ti chiede di che cosa hai biso¬gno, anche in questo caso dì la verità. E se, preso alla sprovvista, tu dicessi: “Non ho bisogno”, smentisciti e sog¬giungi: “Scusami, ho parlato a vanvera, perché ho bisogno di tenere quella cosa”. (Barsanufio e Giovanni di Gaza, Lettera 339. A un fratello).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-08T22:11:08+02:00da fraternidade
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