Giorno per giorno – 06 Luglio 2014

Carissimi,
“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Giovedì sera, quando la comunità era riunita a casa di Rafael e Laura, per riflettere sul vangelo di oggi, ci dicevamo che con queste parole Gesù metteva in forma di preghiera il contenuto delle beatitudini e soprattutto della prima di esse: felici i poveri in spirito, perché Dio è di loro. Gli altri non ne hanno neppure bisogno, dato che si sono creati i loro dèi, con cui tentano di riempire e dare un senso alla vita. E Gesù mica se la prende: facciano pure, se un giorno sentiranno il bisogno di qualcosa di più profondo, scoprendosi così poveri, mi troveranno ad attenderli. Ora, in questa preghiera, Gesù, i poveri, li chiama “piccoli”, gli ultimi, gli ultimi degli ultimi, che hanno accesso per primi e più degli altri a quella conoscenza immediata di Dio di cui Gesù ci ha reso possibile l’esperienza. È una preghiera che esprime la felicità di Gesù davanti alla felicità dei poveri e che fa la felicità di Dio. Forse è stata proprio questa intuizione a spingere Tommaso d’Aquino, sul finire della vita, a voler bruciare tutte le sue opere e a confessare: “Tutto quello che ho scritto non è niente, è soltanto paglia”. C’è più teologia in un solo gesto di tenerezza che in mille trattati di dogmatica. Gesù l’aveva capito e, infatti, non ha lasciato scritto niente, ma ha passato la vita riversando l’amore del Padre su quanti incontrava. La pratica della chiesa non dovrebbe essere differente, come invece spesso lo è. Questo spiega, almeno in parte, il perché i poveri se ne tengano spesso lontani, quando non succede che, in alcuni casi, ne siano addirittura preventivamente esclusi; e ci viene di pensare soprattutto ai nostri amici di Fé e Luz e alla loro difficoltà maggiore o minore di porsi in ascolto o in dialogo su un piano che richiede quasi sempre capacità intellettuali di cui loro non dispongono. Povere liturgie, allora, che lasciano ai margini, proprio come nella società, coloro che Gesù aveva messo e mette al centro della sua attenzione. A loro, in primo luogo, egli rivolge il suo invito, e a noi, per invitarci ad essere [almeno un po’] come Lui: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11, 28-30). Leggero, sì, come il dolce peso dell’amore.

I testi che la liturgia di questa 14ª Domenica del Tempo Comune sono tratti da:
Profezia di Zaccaria, cap. 9,9-10; Salmo 145; Lettera ai Romani, cap. 8,9.11-13; Vangelo di Matteo, cap. 11,25-30.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi settantanove anni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione. La troviamo in rete, sotto il titolo “Il significato della compassione” ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Vorrei spiegare il significato della compassione, che è spesso mal compreso. La vera compassione non si basa sulle nostre proiezioni e aspettative, ma, piuttosto, sui diritti dell’altro: indipendentemente dal fatto che l’altra persona sia un amico intimo o un nemico, nella misura in cui detta persona vuole pace e felicità e vuole evitare la sofferenza, su questa base possiamo sviluppare una genuina preoccupazione per i suoi problemi. Questa è la vera compassione. Di solito, quando siamo interessati alla sorte di un amico intimo, chiamiamo quest’interesse “compassione”; ma non è compassione, è attaccamento. Anche nel matrimonio, in quei matrimonï che durano poco, ciò avviene a causa dell’attaccamento. I matrimoni durano poco a causa della mancanza di compassione; c’è solo attaccamento emotivo, basato sulle proiezioni e sulle aspettative. Se l’unico legame fra amici intimi è l’attaccamento, allora anche un’inezia può indurre un mutamento delle proiezioni. Non appena le proiezioni cambiano, l’attaccamento scompare, perché quell’attaccamento era basato solo sulle proiezioni e sulle aspettative. È possibile avere compassione senza attaccamento e, similmente, provare rabbia senza odio. Di conseguenza dobbiamo chiarire le distinzioni fra compassione e attaccamento e fra rabbia e odio. Tale chiarezza ci è utile nella vita quotidiana e nell’impegno per la pace nel mondo. Ritengo che questi siano i valori spirituali di base per la felicità di tutti gli esseri umani, che siano credenti o meno. (Dalai Lama, Il significato della compassione).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-06T22:08:53+02:00da fraternidade
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