Giorno per giorno – 26 Giugno 2014

Carissimi,
“Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21). Il vangelo di oggi ci portava le ultime battute del Discorso della montagna, che si era aperto con l’indicazione di chi ci sta di diritto, nel regno, ossia, sotto la sovranità di Dio: i poveri e quanti sono in vario modo ad essi assimilabili e quanti lottano con loro, per la libertà, la giustizia, la pace (cf Mt 5, 1-12). Ora, in chiusura, Gesù si premura di chiarire una volta di più le condizioni di accesso al regno, anche perché doveva sapere in anticipo il rischio che il suo messaggio correva di vedersi ridotto ad una formula religiosa, ad una dottrina astratta, ad una serie di celebrazioni e riti, o, peggio ancora, perché mette insieme tutte queste cose e aggiunge loro un po’ di idolatria, ad una identità culturale. E, in questo caso, era meglio essersene rimasto in paradiso. Dunque, non basta confessare Gesù come Signore della nostra vita, recitare il Credo, e neppure essere battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Anche se profetassimo in suo nome, o compissimo miracoli o ci riuscisse di cacciare i demoni, e quant’altro, tutto questo non ci pone automaticamente nel numero di coloro di cui egli è realmente il Signore. È solo compiendo la volontà del Padre, che, non lo ripeteremo mai a sufficienza, mira a che “tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10). Tutti. Non io soltanto, o la mia famiglia, la mia chiesa, la mia classe sociale, il mio Paese. Da qui la necessità di conoscere la portata, i contenuti e le implicazioni delle nostre scelte, da quelle quotidiane, che riguardano le nostre relazioni famigliari, comunitarie, di lavoro, a quelle che attengono il processo di formazione delle decisioni relative alla vita politica, sociale, economica, e religiosa del nostro Paese. Nulla è estraneo alla volontà del Padre, che vuole per noi un’umanità sotto il segno della fratellanza. Stando così le cose, chi ancora non ci è fratello o sorella a sufficienza? Di quale categoria di persone non abbiamo ancora assunto e fatto nostre le rivendicazioni o la tutela dei diritti? Chi guardiamo con disprezzo, con sospetto, con ostilità? Chi condanniamo all’emarginazione, alla miseria, alla fame, ad una morte prematura? È su questi terreni che si giocano la nostra appartenenza al Regno e i suoi segni sacramentali. Se no, sarà stato solo teatro e Gesù non potrà che ripeterci, finché il teatro dura: non vi conosco.

Oggi facciamo memoria di don Lorenzo Milani, prete dalla parte degli ultimi. Quello di “I care”, mi interessa, mi preoccupa, ho cura. L’esatto contrario del “Me ne frego”. Con lui ricordiamo Hans Urs von Balthasar, uno dei teologi più prolifici e prestigiosi del secolo scorso.

Lorenzo Milani era nato a Firenze il 27 maggio 1923, da una famiglia della borghesia intellettuale, di tradizione agnostica. Ebreo per parte di madre, nel 1943 si convertì al cristianesimo e decise di diventare prete, solo, come scriverà, “per spogliarsi di ogni privilegio”. Ordinato nel 1947, fu subito visto con sospetto e perseguitato dalla gerarchia ecclesiastica per il radicalismo delle sue scelte a favore dei poveri. Mandato al “confino ecclesiastico” in un paesino di montagna, organizzò una scuola per restituire la parola a quelli che chiamava i “paria” italiani. A loro, sempre severo, esigente, intollerante, ma tenerissimo, dedicherà tutto se stesso, sino alla fine. Nel 1965, con una Lettera ai Cappellani militari, prese posizione a favore dell’obiezione di coscienza. Venne denunciato e processato. Morì dopo una lunga malattia, a 44 anni, il 26 giugno 1967, poco dopo aver terminato di scrivere con i suoi studenti “Lettere a una Professoressa”, una denuncia della scuola classista che escludeva inesorabilmente i figli dei poveri. Le sue ultime parole, prima di morire, furono: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza”. Che miracolo? “Un cammello che passa nella cruna di un ago”. Ai suoi ragazzi aveva lasciato scritto: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.

Nato a Lucerna (Svizzera) il 12 agosto 1905, Hans Urs von Balthasar entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù il 28 novembre 1928 e fu ordinato prete il 26 luglio 1936. Da allora in avanti dedicherà tutta la sua vita allo studio e all’approfondimento delle questioni teologiche a stretto contatto con i maggiori teologi del tempo, ma anche con l’apporto (che il nostro considererá indispensabile per intendere la genesi e il significato complessivo della sua opera) di Adrienne von Speyr, una donna, il cui cammino di fede fu segnato da straordinarie esperienze mistiche e con cui fondò l’istituto secolare Comunità di san Giovanni. Lasciata la Compagnia di Gesù nel febbraio 1950, von Balthasar guadagnò, nei decenni successivi, crescente spazio e attenzione sulla scena teologica internazionale. Pose come obiettivo della sua produzione teologica: “dimostrare la realtà di Cristo come la cosa insuperabilmente massima, id quo majus cogitari nequit, perché precisamente è la parola umana di Dio per il mondo, è l’umilissimo servizio di Dio che adempie oltre misura ogni mira umana, è l’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire, affinché tutti oltre se stessi vivano per lui”. Che è, appunto, l’Amore. Von Balthasar morì il 26 giugno 1988, mentre si apprestava a celebrare messa.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflesione sono tratti da:
2° Libro dei Re, cap.24, 8-17; Salmo 79; Vangelo di Matteo, cap.7, 21-29.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura la pagina conclusiva del bel libro di Adele Corradi, dal titolo “Non so se don Lorenzo” (Feltrinelli). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Era ormai primavera. Ed erano quasi nove mesi che si lavorava sulla Lettera. Ma ancora non era finita e ogni tanto affiorava la tensione. Perché la malattia avanzava. E il tempo si faceva sempre più breve. Bisognava fare in fretta. Ma una mattina, i ragazzi si erano appena alzati dal tavolo dove si lavorava e c’ero solo io in camera di don Lorenzo, in piedi accanto al tavolo, perché anch’io stavo per andarmene: “Non ho paura,” disse a un tratto e mi fermai. Di cosa non aveva paura?, mi domandai ascoltandolo senza guardarlo. “Non ho paura di non fare a tempo a dire tutto quello che mi rimane da dire… Non importa che io lo dica… La verità si fa strada da sola”. (Adele Corradi, Non so se don Lorenzo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Giugno 2014ultima modifica: 2014-06-26T22:55:42+02:00da fraternidade
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