Giorno per giorno – 25 Giugno 2014

Carissimi,
“Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi?” (Mt 7, 15-16). Quando ascoltiamo queste parole di Gesù, la tendenza è generalmente di passare in rassegna gli “altri” che si presentino come portatori di una qualche verità, per coglierne le possibili incoerenze. E tuttavia, stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, ci dicevano che il richiamo è rivolto in primo luogo a noi, come comunità e come individui. Quali sono i frutti buoni che Dio si attende da noi? Paolo, nella sua lettera ai Galati, li enuncia così: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5, 22). È con l’esaminarci su questi atteggiamenti, che poi esprimono la maniera d’essere di Gesù, e perciò del Padre che egli ci ha manifestato, che sapremo se siamo davvero suoi discepoli, o invece venditori abusivi di una Parola che non ci abita o che non è la Sua. E, in questo caso, è solo prenderne atto, ricominciare, se necessario, da zero, sentirci raggiunti da uno Sguardo che non è mai di giudizio o di condanna, ma di invito a incamminarci su un sentiero, che Gesù ha percorso per primo, stretto, angusto, difficile, e tuttavia l’unico che conduca alla vita. Se è la vita di Dio che desideriamo trovare.

Oggi il nostro calendario ci porta le memorie di Sadhu Sundar Singh, mistico indiano, e di José María Díez-Alegría Gutiérrez, prete e teologo della liberazione.

Sundar Singh era nato nel 1889 a Rampur, nel Punjab (India), da una famiglia di proprietari terrieri di religione Sikh. Adolescente, inviato dal padre presso la locale scuola delle missioni, cominciò a prendere di mira i missionari e a deridere apertamente i compagni che si erano convertiti, arrivando un giorno a bruciare una Bibbia, pagina per pagina, in segno di sfida. Era il 16 dicembre 1904. Tre notti dopo, come egli racconterà, vide “la potenza del Cristo vivente” e udì una voce che diceva: “Quanto tempo ancora mi perseguiterai? Io sono morto per te; per te ho dato la mia vita”. Decise allora che sarebbe stato cristiano. Espulso per questo di casa, l’anno successivo chiese di essere battezzato nella chiesa anglicana, decidendo tuttavia di inaugurare, anche esteriormente, una maniera indiana nella sequela di Gesù: indossando il turbante e la tunica arancione degli asceti, senza fissa dimora, né possesso alcuno, vivendo di elemosine, predicando e testimoniando Cristo con una vita di preghiera e povertà. Dopo aver servito per qualche tempo in un lebbrosario, entrò nel Divinity College, a Lahore, per ricevere una formazione come predicatore. Quando ne uscì, due anni più tardi, riprese la sua vita di sadhu itinerante nell’India settentrionale, nei paesi buddhisti dell’Himalaya, in Tibet, paese quest’ultimo, dove incontrò una violenta ostilità, al punto di essere imprigionato. Fu anche invitato a tenere una serie di incontri in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma rimase assai deluso del materialismo dell’Occidente. Pur frequentando la chiesa anglicana, Singh volle sempre relazionarsi liberamente con le più diverse denominazioni cristiane. Nell’aprile del 1929, nonostante le ormai fragili condizioni di salute, decise di tornare in Tibet e si mise in viaggio. Non se ne seppe più nulla. Ucciso forse dagli stenti, dal freddo, dalla malattia, o da possibili malintenzionati.

José María Díez-Alegría Gutiérre era nato il 22 ottobre 1911, a Gijón, nel Principato delle Asturie, figlio di María Gutiérrez de la Gándara e di Manuel Díez-Alegría García, che era direttore dell’agenzia locale del Banco de España. Entrato nella Compagnia di Gesù, nel 1930, fu ordinato prete nel 1943. Dopo aver ottenuto la licenza in Sacra Teologia e il dottorato in Filosofia e in Diritto, fu professore di Etica nell’Università di Alcalá de Henares dal 1955 al 1961, quando fu chiamato a insegnare Dottrina sociale della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, dove rimase fino al 1972. Quando, nella sua vita, cambiò tutto. O quasi. A causa di un suo libro, dal titolo “Credo nella Speranza”, uscito in quell’anno senza l’imprimatur, tradotto subito in diverse lingue e divenuto ben presto un best-seller. Per non creare difficoltà alla Compagnia di Gesù, scelse di uscire dall’Ordine e andò ad abitare in una baracca al Pozo del Tio Raimundo, un barrio di Vallecas, sobborgo di Madrid, dove da tempo operava tra i più poveri un altro gesuita, padre José María de Llanos Pastor (1906-1992), chiamato il prete rosso. Non per il colore dei capelli. Da allora P. Díez Alegría non ha mai cessato di creare salutari grattacapi a Santa Madre Chiesa e passando comunque indenne tra le maglie della repressione franchista. Come, del resto, P. de Llanos, figlio di un generale questo, figlio di un banchiere e fratello di generali il nostro. Si è spento nella residenza dei gesuiti di Alcalá de Henares, il 25 Giugno 2010, prossimo ai novantanove anni. A chi gli chiese un giorno perché non fosse uscito dalla Chiesa, dopo le ruvide critiche rivoltele per aver ceduto alla tentazione della ricchezza e del potere, rispose: “No, no, non potrei mai. Perché sono rimasto nella Chiesa? È grazie alla Chiesa che ho conosciuto Gesù Cristo. Se non ci fosse stata la Chiesa, non sarei mai arrivato a lui”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro dei re, cap.22, 8-13; 23, 1-3; Salmo 119; Vangelo di Matteo, cap.7, 15-20.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, lungo i cammini più diversi, perseguono un mondo di giustizia, fraternità e pace.

“Teologia tra il serio e il faceto” è il titolo di un libro di José María Díez-Alegría, che ci è già capitato di citare, un anno fa, in questa stessa ricorrenza. Nel congedarci, ve ne proponiamo, un brano, che, anche in questo caso, fa onore al titolo, e ci invita, se mai ne fossimo privi, ad una sana autoironia. Noi per primi. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per dirla con un pizzico di humor, penso proprio che i “ministri autorizzati” stentino a capirsi con lo Spirito Santo, e che questa sia la radice della confusione in cui si trova la chiesa. E la questione è una questione di “humour”. Proprio così. Perché, credo che i “ministri autorizzati” pur con eccezioni ammirevoli, ma molto poche, siano persone senza “humour”. Inoltre, e qui sta il nocciolo della questione, sono persone che credono in buona fede che essere “ministro autorizzato” è una cosa molto “seria”e incompatibile con lo “humour”. Ora, se nella misteriosa sfera del divino c’è qualcosa di antitetico alla “serietà” , è lo Spirito Santo. Lo Spirito è come il poeta della trinità divina. Già il benedetto Gesù, nella sua vita terrena, è stato molto poco “serio”. E secondo i Vangeli, in particolare Luca, la colpa era dello Spirito Santo, che lo portava sempre dove voleva. La teologia più tradizionale distingueva tra le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. Entrambi erano soprannaturali e gratuiti. Ma le virtù si supponeva che procedessero con una certa logica. Mentre i doni erano assolutamente imprevedibili, intuizione poetica, salto della vita. L’opera dello Spirito Santo può essere tragica o umoristica, ma mai “seria”. Ma ecco che si comincia a vedere più chiaramente la radice della crisi in cui la chiesa si dibatte. Perché la condizione di buona salute nel cammino ecclesiale sarebbe un certo passo all’unisono tra lo Spirito e i “ministri autorizzati”. Ma, se i “ministri autorizzati” sono incapaci di “humour” e lo Spirito Santo è incapace di “serietà”, la marcia concorde è impossibile. E questo è ciò che accade. Ma c’è di più. Perché i “ministri autorizzati” convengono che loro e lo Spirito Santo devono camminare all’unisono. Ma sono decisi di dover essere loro a marcare il passo. E questo è l’errore fondamentale. Secondo molti di loro, anche se forse neppure loro si azzarderebbero a dirlo (o anche solo pensarlo) così crudamente, lo Spirito Santo li ha messi a governare le chiese e, dopo averlo fatto, è lo Spirito Santo che deve accogliere ciò che pensano e decidono, perché l’autorità (“giurisdizione”) ce l’hanno loro, non lo Spirito Santo. E, dato che la loro giurisdizione viene da Dio, è soprannaturale. E, dato che è soprannaturale, lo Spirito Santo le deve cedere il passo. Così i “ministri autorizzati” tendono a credere che loro hanno il monopolio dello Spirito Santo, e che noi, solo pecore, possiamo sì avere lo Spirito Santo, ma solo a condizione che esso serva a farci dire amen a tutto ciò che vogliono i “ministri”. Perché, il nostro Spirito Santo, lo amministrano loro. (José María Díez-Alegría, Teología en serio y en broma).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Giugno 2014ultima modifica: 2014-06-25T22:54:34+02:00da fraternidade
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