Giorno per giorno – 14 Giugno 2014

Carissimi,
“Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti. Ma io vi dico: non giurate affatto. Sia invece il vostro parlare: Sì, sì; No, no; il di più viene dal Maligno” (Mt 5, 33-34.37). Non giurare, dunque, il falso, il che sembra abbastanza ovvio, ma non giurare neppure il vero, né col prossimo e neppure col buon Dio. Il quale, attraverso Mosè, ci aveva avvertiti: “Quando avrai fatto un voto al Signore tuo Dio, non tardare a soddisfarlo, perché il Signore te ne domanderebbe certo conto e in te vi sarebbe un peccato” (Dt 23, 22). Della facilità e fragilità delle nostre promesse, si erano resi consapevoli anche i rabbini d’Israele, che, infatti, per la solennità di Kippur, avevano ideato una preghiera, il Kol Nidre, con cui si dichiarano nulli “tutti i voti, o impegni o consacrazioni o scomuniche o giuramenti o obbligazioni e qualsiasi termine sinonimo che potessimo aver pronunziato o giurato o consacrato o proibito per noi, dal precedente giorno del digiuno di Espiazione fino a questo giorno del digiuno di Espiazione”. Gesù fa di più. Per evitarci la tentazione di giurare il falso o di fare promesse a vuoto, con relativi successivi scrupoli di coscienza, suggerisce, come dicevamo, di non prenderci né prendere in giro nessuno, facendo sì che ciò che diciamo risponda, in tutta semplicità, a ciò che sentiamo e viviamo. Senza voler comprare, con parole grosse, la fiducia degli altri, né la benevolenza di Dio, che ci ama di suo, anche se non lo meritiamo. Anzi, proprio di più, per questo. Perché è ciò che lo fa essere il Dio che è, se no, sarebbe come un qualsiasi pagano. Quindi, il nostro parlare sia solo: sì, sì, no, no. Senza promettere né giurare nulla. Nella peggiore delle ipotesi, come ne capitano tutti i giorni, sarà pur sempre un peccato in meno.

Oggi noi si fa memoria di Mauricio Silva Iribarnegaray, spazzino municipale, piccolo fratello del Vangelo, martire in Argentina, e di Cosme Spessotto, martire in El Salvador.

Kléber Silva Iribarnegaray era nato il 20 settembre 1925 a Montevideo (Uruguay), quarto di cinque figli di un’umile famiglia contadina. Dopo la morte del padre, avvenuta in coincidenza della nascita dell’ultimo figlio, il giovane Kléber (cui avevano nel frattempo sostituito il nome con quello di Mauricio per provvedergli un santo in paradiso), lavorò alcuni anni per sostenere la già debole economia famigliare. Poi, però, decise di raggiungere in seminario dai salesiani il fratello minore, Jesús Ramón, e nel 1948 cominciò i suoi studi di teologia a Córdoba (Argentina). I suoi compagni lo descrivono come un giovane alto, dall’apparenza forte e sana, sempre allegro e comunicativo, molto esigente con se stesso, dall’interiorità profonda, amante della lettura e dello sport, appassionato di chitarra. Ordinato prete nel 1951, fu inviato come missionario nella Patagonia argentina. Quando però la madre si ammalò, nel 1960, risolse sia pure a malincuore di lasciare la congregazione salesiana, al fine di aiutarla economicamente. Chiese e ottenne, ancora una volta assieme al fratello Jesús, lui pure salesiano, di passare al clero dell’arcidiocesi di Montevideo, dove fu destinato alla parrocchia di san Giovanni Battista, a Pocitos. Superata la difficile congiuntura famigliare, i due fratelli decisero di tornare ad una vita comunitaria. Attratti dalla spiritualità di Charles de Foucauld, entrarono nel 1970 nella fraternità dei Piccoli fratelli del Vangelo di Buenos Ayres. Dopo il noviziato, Mauricio lavorò per un po’ con la gente delle discariche di Rosario, con quanti, cioè, traggono dalla spazzatura i loro mezzi di sostentamento. Tornato a Buenos Ayres, si impiegò come netturbino. La mattina del 14 giugno 1977, alle cinque e mezza, uscì come al solito per recarsi al lavoro. Poco prima, nella cappella, aveva pregato e meditato un testo della Lettera a Filemone, in cui Paolo accenna alle catene portate a causa del Vangelo. Alle otto e mezza, tre uomini in divisa, scesi da una Ford Falcón bianca, avvicinarono Maurizio che stava svolgendo le sue funzioni all’angolo di Terrero e Magariños Cervantes, nella Capitale Federale, parlottarono con lui e lo scortarono fino all’auto. Da allora Mauricio sparì nel nulla, seguendo la sorte di altre migliaia di argentini.

Cosme Spessotto era un francescano italiano, missionario in El Salvador. Fu per 27 anni parroco e vicario episcopale della diocesi di San Vicente. La mattina del 14 giugno 1980, fu assassinato da quattro individui armati, che penetrarono in chiesa mentre pregava. Pochi giorni prima aveva lasciato scritto: “Prevedo che, da un momento all’altro, alcuni fanatici potrebbero uccidermi. Chiedo al Signore che, al momento opportuno, mi dia la forza per difendere i diritti di Cristo e della Chiesa. Morire martire sarebbe una grazia che non merito. Lavare, con il sangue versato da Cristo, tutti i miei peccati, difetti e fragilità della vita passata, sarebbe un dono gratuito del Signore. Perdono in anticipo e chiedo al Signore la conversione degli autori della mia morte. Ringrazio tutti i miei fedeli che con le loro espressioni e manifestazioni di stima, mi hanno animato a dar loro quest’ultima testimonianza di vita. Possano anche loro essere buoni soldati di Cristo. Spero di continuare ad aiutarli dal cielo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap.19, 19-21; Salmo 16; Vangelo di Matteo, cap.5, 33-37.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Non abbiamo sottomano scritti di Mauricio Silva da proporvi. Scegliamo allora di offrirvi un brano di “La gioia di essere liberi” (Edizioni Messaggero Padova), un libro di Arturo Paoli, che, negli anni del suo soggiorno in Argentina, fu, di Maurizio, fratello e compagno. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Noi possiamo riscoprire la traccia di Dio solamente nei momenti in cui sentiamo il valore della giustizia e l’importanza di lottare per realizzarla. I nostri veri eroi sono quelli che veramente hanno lottato e si sono impegnati per la giustizia, a loro dobbiamo riconoscere un valore religioso perché la giustizia è un autentico valore religioso. Dio è giustizia, la passione di Dio è l’uomo restaurato nella sua vera identità e dignità; se noi non assumiamo la sua passione non siamo figli suoi. Noi non siamo figli perché abbiamo lo stesso naso e gli stessi occhi di Dio, ma perché gli rassomigliamo nel sogno, negli ideali, nel progetto. La vera identità di figli di Dio non è la veste che noi indossiamo simbolizzata dalla chiesa con un abito bianco; la nostra vera identitá è rassomigliargli nella sua passione e nella sua sofferenza. La sofferenza di vedere che noi invece di aiutare i nostri fratelli a crescere nella loro identità di figli e di fratelli li spogliamo della loro stessa identità. […] La vera traccia di Dio su cui bisogna mettere i giovani è quella della responsabilità verso gli altri. Pensare l’abbandono di Dio stando insieme con Lui nella più totale fedeltà a quella terra a cui egli si è fatto fedele fino all’abisso della croce. (Arturo Paoli, La gioia di essere liberi).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle dlela Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Giugno 2014ultima modifica: 2014-06-14T22:41:26+02:00da fraternidade
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