Giorno per giorno – 09 Giugno 2014

Carissimi,
“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5, 1-6). La lettura del vangelo di Matteo, che ci accompagnerà per dodici settimane, si è aperta oggi con la proclamazione delle Beatitudini, che stanno al Discorso della montagna, come il preambolo sta alla Carta costituzionale di un Paese. In questo caso, un paese, una società, una comunità, una chiesa, che accettino su di sé la sovranità di Dio. Un Dio che dà mostra di non interessarsi della religione e delle sue pratiche, ma che si è fatto una cosa sola con il suo popolo, con gli ultimi del suo popolo, con i loro sogni, vincoli di solidarietà, lotte. Scegliendo così per sé una comunione di destino con loro. O, anche, facendo di loro la sua ragione di esistenza. Non l’uomo per celebrare Dio, ma, in prima battuta, Dio per celebrare, dichiarare e fare felice l’uomo. E, solo in seconda battutta, essere da lui celebrato, come esigenza di chi si senta raggiunto da un amore insperato. Le beatitudini ci permettono di misurare la vicinanza dei nostri consessi umani al Regno di Dio, e perciò anche il tasso di divinità che ci abita. E tutto è fatto dipendere dallo spazio che occupano i poveri, le molteplici povertà della gente, nelle nostre priorità. Se il Regno appartiene a loro e la sovranità di Dio è quanto è messo a loro disposizione, per colmarne i vuoti e soddisfarne le esigenze, quando noi non ci lasciassimo guidare dalla fame e sete di giustizia, capace di asciugarne il pianto, di dispensare misericordia, di operare in pura trasparenza, di gettare le basi per la pace di tutti, di porre fine ad ogni persecuzione, semplicemente negheremmo Dio e il suo sogno di vita per il mondo. Facendone, se va bene, un piccolo idolo da usare per il soddisfacimento dei nostri egoismi personali e di gruppo. Noi ci dovremmo dunque chiedere, ad ogni momento: che spazio ha Dio, il Dio di Gesù, l’esercizio della sua sovranità, nella nostra vita?

Tre sono le memorie di oggi: quella di Efrem di Nisibi, diacono, poeta e innografo; quella di José de Anchieta, “il più piccolo della Compagnia di Gesù” (secondo la sua stessa definizione); e quella di Héctor Gallego, prete e martire della solidarietà in Panama .

Efrem nacque a Nisibi in Mesopotamia (oggi Nusay-bin in Turchia, al confine con la Siria), verso il 306 e, diciottenne, ricevette il battesimo dal vescovo di quella città, Giacomo, che divenne sua guida spirituale ed amico. Al pari di altri asceti di quella regione, Efrem rinunciò al matrimonio e scelse di vivere in solitudine, dedicandosi allo studio delle Scritture e alla preghiera, e ponendo la sua vita al servizio della chiesa e dei poveri. Quando nel 363 la città cadde in mano persiana, Efrem, che nel frattempo era stato ordinato diacono, si stabilì a Edessa, dove gli fu affidata la direzione della cosiddetta “scuola dei persiani”, in cui si insegnava a leggere e a commentare la Sacra Scrittura. Dall’assidua frequentazione dei testi sacri, trasse, con l’aiuto dell’estro poetico di cui era assai dotato, molte liriche e inni, che si diffusero ben presto in tutto l’Oriente. Nel 372, una grande carestia si abbattè sulla città di Edessa, e Efrem ricevette l’incarico di organizzare i soccorsi. Morì il 9 giugno dell’anno successivo. Benedetto XV lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1920.

José era nato il 19 marzo 1533 a San Cristobal de la Laguna, nell’isola di Tenerife, arcipelago delle Canarie, da dona Mência Dias de Clavijo Llerena (di famiglia ebrea convertita) e da João Lopez de Anchieta, un esule basco che, dopo una ribellione, si era visto commutata la pena di morte in quella dell’esilio, grazie all’intervento di un capitano suo amico, tal Ignazio di Lojola. Di cui in seguito si sarebbe sentito parlare in altra veste. Ricevuta la prima istruzione nella città natale e mandato, quattordicenne, a Coimbra, in Portogallo, per portare a termine i suoi studi, José maturò lì la sua vocazione religiosa. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1551, fece la sua professione religiosa due anni più tardi e subito dopo fu inviato con altri compagni come missionario in Brasile. Sbarcati a Bahia l’8 luglio 1553, i missionari si spostarono in direzione dell’altipiano. Giunti nei pressi di un villaggio indigeno, nella regione di Piratininga, costruirono la loro prima casa, “una casupola poverissima e strettissima”, che vollero dedicare a san Paolo, dato che era il 25 gennaio [1554], festa della Conversione dell’Apostolo. Fu da quella baracca che negli anni successivi si sarebbe sviluppata quella che oggi è la megalopoli paulista. Ordinato sacerdote nel 1566, il nostro gesuita, che continuerà a firmarsi sempre e soltanto col nome, per timore forse che si scoprissero le sue ascendenze ebree (erano tempi in cui l’Inquisizione perseguitava gli ebrei convertiti, diffidando della sincerità della loro conversione), si distinse per entusiasmo apostolico e per saggezza, nonché per capacità di governo, quando, un decennio più tardi, fu chiamato alla guida della Provincia gesuita del Brasile. Di fronte alla brutalità e all’ignoranza crassa dei colonizzatori, seppe prendere le difese degli indios, studiando le possibilità e percorrendo i cammini di quella acculturazione pacifica che, nei parametri culturali e religiosi dell’epoca, era intesa come unica via alla promozione umana, sociale e morale di quelle popolazioni. Compose in lingua indigena il primo catechismo, dopo averne scritta anche la prima grammatica. Morì il 9 giugno 1597 a Reritiba, chiamata poi Anchieta in suo onore.

Il colombiano Jesús Héctor Gallego era giunto, per la prima volta a Santa Fé de Veraguas, in Panama, da seminarista, nel febbraio 1967. Ed era tornato in patria, solo per esservi ordinato prete, il 16 luglio dello stesso anno, per mano del profetico vescovo Mons. Marcos Gregorio McGrath. Rientrato in agosto, in Panama, avviò subito un’intensa attività pastorale per impiantare quella che sarà la sua futura parrocchia. Con un gruppo di seminaristi prese a percorrere tutta la regione, visitando i villaggi disseminati sulle sue montagne. Si trattava di un distretto completamente abbandonato, per l’assoluta mancanza di vie di comunicazione. I contadini erano quasi tutti analfabeti, poveri, in cattive condizioni di salute e isolati. Padre Héctor organizzò la popolazione in 64 comunità di base, in cui si approfondiva la conoscenza delle Scritture, si discutevano i problemi della comunità, si celebrava l’Eucaristia. Una volta al mese si celebrava la Messa di tutte le comunità; oltre mille contadini, macinando molti chilometri a piedi, convergevano allora a celebrare la loro fede, scoprire insieme le cause dell’oppressione e della miseria, divenire solidali nella lotta, organizzare il lavoro in cooperativa. Il lavoro di coscientizzazione si basava su un “pericoloso libello rivoluzionario”: l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI. Se la gente sentiva di potersi fidare di quel prete, che vestiva e abitava poveramente come loro, che, come loro, a volte, pativa la fame, altri invece presero a guardarlo con sospetto e stizza. Le minacce contro il “prete estremista”, che era venuto a turbare l’ordine e la sicurezza dei latifondisti, si moltiplicarono, così come gli avvertimenti, i dispetti, gli attentati, i fermi. Finché, il 9 giugno 1971 fu prelevato a forza di casa e fatto sparire. Numerosi testimoni riconobbero nei sequestratori alcuni membri della Guardia Nazionale, che nei giorni precedenti il sequestro avevano chiesto di lui. Tre di loro saranno in seguito condannati a quindici anni di prigione per coinvolgimento diretto nella sparizione di padre Héctor. Lui però vive.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap.17, 1-6; Salmo 121; Vangelo di Matteo, cap.5, 1-12.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Un altro giovane, Dione Ferreira, è stato ucciso ieri sera – e un altro ferito – , su all’Aeroporto, nell’ambito, sembra, di un regolamento di conti tra bande di trafficanti. Oggi si sono avuti una serie di arresti, uno dei quali colpisce una famiglia, davvero esemplare, di una comunità del bairro vicino al nostro. Mettiamo tutti nella vostra preghiera. E, per stasera, è tutto. Noi ci congediamo qui, offrendovi in lettura un brano di Efrem il Siro, che troviamo in un’antologia dei suoi scritti, consultabile in rete. E che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Badate che nessuno dica: “Io non ho peccato”. Chi dice così, è cieco o miope; egli illude se stesso e non vede come Satana lo inganna nei discorsi e nelle opere, con l’udito, il tatto e il pensiero. Chi può gloriarsi di avere il cuore immacolato e tutti i sensi puri? Nessuno è privo di peccato, nessuno è privo di immondizia, nessuno tra gli uomini non ha errato, ad esclusione di quegli solo che per nostro amore si è fatto povero, essendo ricco. Senza peccato è quegli solo che toglie i peccati del mondo, quegli che vuole la beatitudine di tutti gli uomini e non vuole la morte del peccatore: l’amico degli uomini, il mitissimo, il misericordioso, il buono, l’amante delle anime, l’onnipotente, il salvatore di tutti gli uomini, il padre dei sapienti e il giudice delle vedove, il Dio dei penitenti, il medico delle anime e dei corpi, la speranza di chi è privo di speranza, il porto di chi è sbattuto dalla tempesta, l’aiuto di chi non ha aiuto, la strada della vita, che chiama tutti alla penitenza e non rigetta nessuno che si converta. In lui troviamo anche noi il nostro rifugio, perché tutti i peccatori che a lui ricorrono ottengono la salvezza dell’anima. Anche noi, o fratelli, non dobbiamo temere della nostra salvezza. Abbiamo peccato: perciò, convertiamoci! Mille volte abbiamo peccato: perciò convertiamoci mille volte! Per ogni opera buona Dio si rallegra, ma soprattutto per la penitenza dell’anima. Su di questa egli si piega tutto, la solleva con le proprie mani, la chiama e la incoraggia dicendole: “Venite da me voi tutti che siete oppressi da qualche peso; io non rigetto colui che si rifugia in me. Venite da me voi tutti che soffrite e siete aggravati: io vi ristorerò lassù in quella città dove tutti i miei santi riposano in grande pace!”. (Efrem il Siro, La seconda venuta di Nostro Signore, 24-25).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Giugno 2014ultima modifica: 2014-06-09T22:48:50+02:00da fraternidade
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