Giorno per giorno – 19 Maggio 2014

Carissimi,
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (Gv 14, 23-24). È la risposta di Gesù a Giuda, non l’Iscariota, ma l’altro, quello buono, che gli aveva chiesto: com’è che tu ti manifesti a noi e non al mondo? Che, poi, è la domanda che con tutta probabilità era sorta nella comunità di Giovanni e quella che una volta o l’altra ci poniamo pure noi, anche se con una differente formulazione: perché saremmo noi i detentori della verità e non gli altri? Solo che Gesù non risponde a questa domanda. O risponde a modo suo. Non ci dice che noi possediamo o possederemo la verità, ma che la verità prenderà casa da noi. E da quanti amano lui (il suo significato) e osservano la sua parola. Succede così che la verità, sia possibile incontrala o farla incontrare per strada, ed uno scopre che il mondo è più bello di quanto si potesse fino ad allora pensare. Da qui deriva la responsabilità che abbiamo noi, che ci diciamo discepoli di Gesù. La verità non sono le belle parole che possiamo distribuire a destra e manca, sono invece i gesti concreti che poniamo in essere, a partire da dentro di casa, fino alle scelte più impegnative che siamo chiamati ad assumere fuori, in relazione agli altri, alla società, alla chiesa, nel loro complesso, alla natura che ci circonda. E lì che noi affermiamo o neghiamo la verità di Gesù.

Oggi è memoria di Pietro Celestino V, monaco e papa coraggioso.

Pietro era nato ad Isernia nel 1215, penultimo dei dodici figli di Angelo Angelerio e Maria Leone, due contadini semplici e buoni. Dopo aver sperimentato ancora ragazzo il duro lavoro dei campi, nel 1231 decise di entrare in un monastero benedettino, ma se ne allontanò presto, insoddisfatto per lo stile di vita che vi regnava, ritirandosi a vivere da eremita, in una grotta sul fiume Aventino, nei pressi di Palena. Nel 1238 si recò a Roma dove, l’anno successivo, fu ordinato sacerdote. Tornato in Abruzzo, si stabilì sul monte Morrone, raggiunto presto da altri uomini desiderosi di servire il Signore in solitudine, lavoro e preghiera. Pietro li organizzò in comunità come “eremiti di san Damiano” (in seguito saranno chiamati “Celestini”), dando loro una regola che venne approvata dal papa Gregorio X nel 1273. Nel 1294, a due anni dalla morte di papa Nicolò IV, i dodici cardinali riuniti in conclave non erano ancora riusciti ad accordarsi sul nome del successore. Pietro prese allora l’iniziativa di scrivere loro una lettera durissima di biasimo e i cardinali, in buona o in mala fede, pensarono bene, nella seduta del 5 luglio 1294, di eleggere papa lui, che prese il nome di Celestino V. Il vecchio monaco, quasi ottantenne, scoprì tuttavia presto di essere una pedina impotente di giochi e di trame che passavano sopra la sua testa. E pensò che non era così che aveva desiderato servire la sua Chiesa. Sicché, dopo solo cinque mesi dall’elezione, disse: me ne vado. Depose la tiara, lasciò il pastorale, si spogliò del manto e riprese il suo semplice saio. Il cardinal Caetani, che era sulla bocca di tutti come suo probabile successore e che si era dato un gran daffare per convincerlo a quel passo, gli promise che sarebbe potuto tornare tranquillo al suo eremo. Ma, divenuto Bonifacio VIII, dimenticò la sua promessa, e pensò più prudente, per evitare ogni possibile fronda, imprigionare il vecchio, che morì nella rocca di Fumone, nei pressi di Anagni, solo e dimenticato, il 19 maggio del 1296. Diciassette anni dopo, un altro papa, Clemente V, forse anche per farsi perdonare, lo dichiarò santo.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 14, 5-18; Salmo 115; Vangelo di Giovanni, cap. 14, 21-26.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

La rinuncia di Pietro Celestino V era stata dettata dal rifiuto di un certo tipo di Chiesa, che aveva ceduto al fascino della mondanitá e del potere; una tentazione, da sempre presente, nel seno della comunità cristiana, come anche nell’ambito di ogni società umana. Quella che ci spinge a pensare Dio come la suprema forma del potere, adeguando ad essa l’idea che ci facciamo dell’istituzione sacra che lo rappresenta o presume di rappresentarlo, e, più in generale, il significato della nostra vita. E pensare che Gesù era apparso proprio per contestare alla radice una tale visione e vaccinarci una volta per tutte contro questa suggestione dell’antico serpente. Per affermare la logica del servizio umile e disinteressato e della gratuità del dono. La scommessa di papa Francesco ci pare si giochi ancora una volta su questo piano, scontando le resistenze immani opposte dalle sedimentazioni di diciassette secoli di storia.

È tutto, per stasera, e noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano del Card. Carlo Maria Martini, tratto dal libro “Dialoghi di fine millennio” (BUR), che sembra disegnare in anticipo, la lenta svolta della Chiesa, cui assistiamo in questi ultimi tempi. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Io non credo che ci sia oggi una strategia diversa per presentare il Divino, diversa almeno da quella con cui il Divino si è presentato nella storia. E come dicevano gli antichi Padri della Chiesa, il Divino si è rimpicciolito, si è abbreviato, si è, per così dire, affievolito per presentarsi. Questo è ciò che dicevano i Padri della presenza di Gesù nella storia. Quindi il Divino è presentato nell’umiltà e nella modestia delle beatitudini: beati i poveri, beati i miti, beati gli operatori di pace, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore. È presentato in una vita libera da angosce: “lasciate da parte ogni preoccupazione”, siete figli del Padre che cura i gigli del campo. È presentato con quella serenità e gioia con cui l’ha presentato per esempio san Francesco d’Assisi al suo tempo. La santità cristiana è intesa allora come liberazione dall’angoscia, gioia della vita, speranza dopo la morte, esistenza pacifica, umile, modesta, capace di solidarietà, di sacrificio. Questo mostra il Divino. Perché il Divino si è presentato così. Credo allora che non ci sia da studiare nuove presentazioni, ma da cercare di rivivere quella presentazione misteriosa, sconvolgente, inedita, inaudita che Gesù ha fatto del Divino nella debolezza e nella mitezza della sua carne. […] Noi siamo così vogliosi di ripresentare il Divino in termini mitologici, grandiosi, trionfali, schiaccianti, mentre Gesù non ha schiacciato nessuno ma si è lasciato schiacciare. E questo è sempre qualcosa che ci scuote, che ci fa sentire tutti lontani da questo ideale di presentazione del Divino che pure è emerso nel mondo ed è emerso storicamente come evento, come avvenimento di questo mondo. (Carlo M. Martini, Dialoghi di fine millennio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri frateli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Maggio 2014ultima modifica: 2014-05-19T22:06:49+02:00da fraternidade
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