Giorno per giorno – 30 Aprile 2011

Carissimi,

“Alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. E disse loro: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16, 14-15). La chiesa, potremmo dire che comincia con questa ostinata mancanza di fede. Secondo il racconto che ne fa questo supplemento del Vangelo di Marco, i discepoli non avevano creduto alla Maddalena (v.11), né ai due (verosimilmente, i discepoli di Emmaus), a cui era apparso sotto altro aspetto “mentre erano in cammino verso la campagna” (v. 12), sicché Lui poteva davvero dirsi con qualche ragione: begli amici mi sono scelto! D’altra parte, credere alla risurrezione di chi, ma anche di ciò che si è visto morire è un po’ difficile, soprattutto se la si immagina come il ripresentarsi della situazione che era, o della nostra esperienza di fino a ieri. E invece Dio è creativo, ed ogni volta si inventa in una maniera nuova. Come nuova è ad ogni passo la storia dell’uomo. Eppure il messaggio, il lieto messaggio, la buona notizia, è sempre lo stesso – il Crocifisso – ed ha come suoi interlocutori immediati, e come suoi mediatori, sempre gli ultimi, i più disprezzati, i meno credibili. E non potrebbe essere altrimenti, senza smentirsi: questo lo capiscono anche e soprattutto i bambini. Di quegli ultimi è immagine fedele la Maddalena, una prostituta che Gesù aveva liberato da sette demóni (tutto il male che riusciamo ad immaginare). Ora, diciamocelo chiaramente, se e quando noi cerchiamo la verità, non ci pensiamo proprio di ascoltarla nell’annuncio di una prostituta, sia pure ex. Come minimo, si va ad interpellare un teologo, un biblista, un filosofo, un prete (e se è un prete che è tutte queste cose insieme, ancora meglio) o il guru di turno. Gesù, anche da morto crocifisso, cioè da risorto, provoca. Cerca sempre il peggio. Perché nessuno si possa sentire a disagio. E perché nessuno sia obbligato a credere. Perché una verità che sia il frutto di un ragionamento o il portato di una dimostrazione, in qualche modo vincola. Ma la fede chiede che essa sia indimostrabile per garantire la mia libertà. La prova della risurrezione di Gesù (che il Crocifisso sia, cioè, la Verità di Dio e del suo darsi), semplicemente, non c’è. Ma c’è la vita di chi, alla sua sequela, vive da risorto, nella logica della croce, destinandosi agli ultimi, scegliendo la loro compagnia. Senza chiedersi se siano migliori degli altri o non siano per caso colpevoli di qualcosa. E c’è, soprattutto, la Sua parola che attesta che Lui è in loro. Ed hanno ragione quelli che dicono che la Verità è una persona. Ma quella persona è anche e solo colui che ha scelto di identificarsi per sempre con “quelle” persone. Se non crediamo questo, tirandone tutte le conseguenze del caso, saremo tutto, anche persone degne e rispettabili, fuorché cristiani. Noi abbiamo ascoltato questo Vangelo, nel pomeriggio, durante l’Eucaristia celebrata assieme a dom Eugenio e agli amici e amiche di Fé e Luz. E non vorremmo esagerare affermando che è, ogni volta, una epifania del regno, manifestazione di ciò che dovrebbero essere le nostre relazioni, sempre. Mentre succede spesso che le altre liturgie, le più seriose e solenni, rischino di restarne lontane anni luce.           

 

I testi che la liturgia di questo Settimo Giorno di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap. 4, 13-21; Salmo 118; Vangelo di Marco, cap.16, 9-15.

 

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel. 

 

Oggi facciamo memoria di Giuseppe Benedetto Cottolengo, amico degli ultimi.

 

30_JOS__BENTO_COTTOLENGO.JPGGiuseppe Benedetto Cottolengo era nato a Bra, in provincia di Cuneo, il 3 maggio 1786, primo di una famiglia di dodici figli. Nel 1811 fu ordinato prete a Torino. Il 17 gennaio 1828 inaugurò, con l’aiuto di un gruppo di volontari, il Deposito della Volta Rossa, una sorta di pronto soccorso per accogliere quanti erano rifiutati dagli altri ospedali e vivevano in uno stato di abbandono. Tra i volontari spiccava la figura di una vedova, Marianna Nasi, a cui il prete decise di affidare alcune ragazze che accettarono di giocare la loro vita amando Dio, nel servizio gratuito ai poveri. Nacquero così le Figlie di san Vincenzo ( o Cottolenghine).  Nel 1832, chiusa la Volta Rossa, inaugurò a Valdocco, nella periferia degradata di Torino, la Piccola Casa della Divina Provvidenza, in un rustico semiabbandonato che il prete aveva preso in affitto. Dopo pochi mesi affittò un altra casa nelle vicinanze. Entrambe per occuparsi  di coloro che erano considerati pesi morti dalla società e spesso anche dalle loro [cristiane] famiglie. Ed erano solo figli e figlie di Dio. Tra il 1833 e il 1836 portò a termine la costruzione di un grandioso ospedale; poi si diede ad aprire scuole popolari e asili infantili. Non mancarono ovviamente crisi e difficoltà, ma la fede nella provvidenza ebbe sempre la meglio. Nel 1842 un’epidemia di tifo investì Torino, soprattutto le zone più povere. Cottolengo si ammalò, ma continuò a lavorare e a pregare instancabilmente, fino a quando le forze vennero meno. Il 29 aprile dello stesso anno,  nella casa del fratello sacerdote, a Chieri, ricevette l’estrema unzione e, la sera successiva, morì.

 

Durante la notte e, poi, nella mattinata, era proseguito, nel Centro comunitario del bairro,  l’afflusso di parenti, amici e vicini, venuti a salutare seu Ciato. Anche dom Eugenio ha voluto essere presente per riaffermare la parola animatrice della fede e la vicinanza solidale della chiesa. Nel pomeriggio, negli stessi locali, abbiamo celebrato con allegria l’incontro degli amici di Fé e Luz. A sera, infine, in cattedrale, grande concorso di folla da tutta la diocesi (e non solo) per l’ordinazione presbiterale di Celso Carpenedo, che molti di voi conoscono ed apprezzano. Con la recente divisione della città in due parrocchie, il neo-presbitero ha assunto l’incarico di amministratore della parrocchia di santa Rita, che riunisce le comunità della parte più popolosa della città. “Il sacramento del sacerdozio ordinato significa in modo efficace quella grazia di Dio che consente ad un essere umano debole e difettoso di dare una volta per sempre la propria parola che nessun bene sarà più prezioso, nella sua vita, della cura della Chiesa e della custodia dell’evangelo”, per dirla con le parole di un vostro giustamente rinomato teologo. È, insieme, il nostro augurio e la nostra preghiera per padre Celso.

 

Dato che si è parlato di Fé e Luz, congedandoci, scegliamo di offrirvi in lettura il brano che conclude il libro “Trovare la pace” (Edizioni Messaggero Padova). È di Jean Vanier (che, di Fé e Luz, è fondatore) ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ho visto molti uomini e donne pieni di collera e di angoscia quando arrivavano all’Arca provenienti da istituti  dove avevano sofferto o dalla strada; e li ho visti poi risorgere come persone nuove, colme di tenerezza e di amore. Ci vuole tempo per la guarigione e la pace interiore. Ho visto giovani trasformati per aver condiviso la loro vita con i disabili, scoprendo così la propria capacità di dare vita e speranza agli altri. Sì, credo nella capacità al cambiamento di ciascuno di voi. Il nostro mondo è un luogo di violenza e di paura, un luogo dove molti si nascondono dietro il muro dell’individualismo, della comodità e della sicurezza, spaventati dal guardare la realtà, incapaci di discernere chi sono realmente. Dopo l’11 settembre 2001, molti si nascondono anche dietro i pregiudizi e la paura, stigmatizzando quelli delle altre culture. E forse nel nostro tempo le tenebre diventeranno ancora più fitte, crolleranno altre torri e certezze, la borsa valori oscillerà nuovamente prima che un maggior numero di persone cominci veramente a cercare nuovi modi di vita, nuove vie di pace. Naturalmente il mondo non cambierà dalla sera alla mattina. Ma la gravità del momento attuale, la paura della guerra, il terrorismo e tutte le forme di violenza stanno incitando molte persone a ricercare un nuovo stile di vita. Molti hanno visto la pochezza della prosperità materiale e stanno scoprendo che possono diventare parte attiva nella costruzione dell pace. Se voi e io oggi ci sforziamo di vivere la pace, di essere costruttori di pace, se contribuiamo a creare comunità di pace, non è per cercare il successo. Se troviamo la pace, se viviamo e lavoriamo per la pace, anche se non vediamo risultati tangibili, possiamo diventare esseri umani in pienezza, camminando insieme sulla strada della gentilezza, della compassione e della pace. Una speranza nuova è nata. (Jean Vanier, Trovare la pace).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro. 

Giorno per giorno – 30 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-30T23:52:00+02:00da fraternidade
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