Giorno per giorno – 16 Aprile 2011

Carissimi,

“Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinèdrio e dissero: Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione” (Gv 11, 47-48). Tutti i Vangeli che la liturgia ci fa ascoltare in questi ultimi giorni di Quaresima orientano la nostra attenzione alla decisione che matura negli ambienti religiosi, per paura di o in combutta  con i potenti di turno, di eliminare Gesù.  Il quale, dice Giovanni, pone in essere dei “segni” pericolosi e destabilizzanti. Perché introducono nello spazio della convivenza sociale, a partire dal cuore dell’esperienza religiosa, una maniera diversa di vivere e relazionarsi. Che ci sottrae alla logica del dominio per consegnarci a quella del dono e della gratuità. Il segno di cui Gesù è stato autore a Betania (“La casa dei poveri”), con la risurrezione di Lazzaro (“Dio-aiuta”), nella casa di Maria (“amata da Dio) e di Marta (“signora”), suoi amici, se, da un lato, è la definitiva conferma della “buona notizia” portata da Gesù a quelle comunità di poveri, cui anche il Vangelo di Giovanni si dirige, riveste però un significato intollerabile per le autorità religiose e, ovviamente, quelle politiche, a cui le prime fanno riferimento. Restituire alla vita, e cioè alla capacità di agire  chi è rinchiuso nei tumuli del sistema del dominio è l’opera di Dio, di cui Gesù è, nel contempo, annunciatore, annuncio e annunciato. Il disagio delle autorità religiose è, in fondo, abbastanza comprensibile, e non è sempre, né necessariamente, espressione di malafede. Il sinedrio del tempo di Gesù era, probabilmente, davvero preoccupato, oltre che della propria sopravvivenza, “anche” del danno che sarebbe potuto derivare al popolo dalla sempre possibile ritorsione degli occupanti romani. Oggi, come ieri e l’altro ieri, non è molto diverso. Questo spiega perché, ovunque si sia manifestato e affermato l’idolo del potere, comunque travestito, ci sia chi è stato perseguitato e chi invece è stato complice – o anche solo spettatore silenzioso – della persecuzione; chi ha optato per una teologia e una prassi della liberazione, e chi l’ha invece combattuta in nome di una teologia e una prassi che non poteva che essere dell’oppressione; chi sceglie un regime di scambio di favori e di privilegi, a spese della verità, della giustizia e della libertà e della dignità, e chi invece affronta serenamente, per quanto gli è possibile, le macchine del fango degli avversari. E non solo quelle.  Noi che segni lasciamo con il nostro parlare, prendere posizione, agire?      

 

Le memorie di oggi sono tutte, a diverso titolo,  memorie di piccoli. Ricordiamo, infatti, Iqbal Masih, martire per i diritti dell’infanzia, Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio,  e Bernadette Soubirous, come un chicco di grano.

 

16 IQBAL MASIH.jpgIqbal Masih era nato nel 1983 a Muridke, in Pakistan, da una giovane e poverissima coppia cristiana, Bezak e Fredrem. All’eta di cinque anni venne ceduto dai genitori ad un certo Gullah, artigiano di tappeti, per far fronte a una situazione debitoria divenuta insostenibile. Fu l’inizio di una schiavitù, comune a milioni di altri bambini,  che si vedono negato il diritto ad un’infanzia che lasci spazio alla serenità degli affetti familiari, dei giochi tra coetanei, degli studi che preparano un futuro migliore. Organizzato e controllato dalla cosiddetta “mafia dei tappeti”, il lavoro al telaio di questi bambini durava fino a dodici ore al giorno, con ritmi massacranti. Per Iqbal, tutto questo durò per sei anni, fino a quando, nel 1993, quasi materializzazione di un sogno impossibile, all’entrata della fabbrica apparve Ehsan Ullah Khan, un avvocato attivista del Fronte di liberazione dal lavoro forzato. Quell’incontro segnò per il piccolo Iqbal una nuova vita.  Cominciò a studiare (“diventerò avvocato per difendere i bambini-schiavi”), e a viaggiare, per denunciare lo sfruttamento suo e di miriadi di suoi coetanei. Presto, in Pakistan, cominciò a sentirsi l’effetto di queste denunce: decine di fabbriche di tappeti, che sfruttavano il lavoro minorile, furono infatti costrette a chiudere i battenti. Ma, cominciarono a piovere anche le minacce di morte, sul piccolo e sulla sua famiglia. Iqbal fece sapere: “Non ho più paura del mio padrone; ora è lui ad avere paura di me”. E continuò imperturbabile. Poi la mattina di Pasqua, 16 aprile 1995, uscito di chiesa, il ragazzino fece ritorno a casa e, inforcata la bicicletta, prese a giocare spensierato con due cuginetti. Il suo assassino lo stava aspettando. Due colpi di fucile posero fine alle sue speranze e ai suoi sogni, ma non a quelle di milioni di altri bambini che, dalla sua vita e dalla sua morte, cominciarono a scorgere il profilarsi di una nuova aurora.

 

16 BENTO JOSÉ LABRE.jpgBenedetto Giuseppe Labre era nato ad Amettes, presso Arras, in Francia, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di una famiglia di piccoli agricoltori. Dopo gli studi presso la scuola del villaggio, chiese invano ai genitori il permesso di farsi trappista. Compiuti i diciotto anni, bussò alla porta della Certosa di S. Aldegonda, poi a quella dei cistercensi di Montagne, in Normandia, ma senza risultato. Riuscì a trattenersi qualche settimana nella certosa di Neuville e, per un periodo un po’ più lungo, nell’abbazia cistercense di Sept-Fons. Ma non faceva per lui. Sicché alla fine risolse che il suo monastero sarebbe stato la strada. E si recò a Roma. Una bisaccia in spalla, col Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario, un rosario e una croce era tutto ciò che questo vagabondo di Dio si portava appresso. Il suo pasto era sobrio: un pezzo di pane e qualche erba. Se riceveva dell’elemosina, subito la condivideva con gli altri poveri.  Di notte si riparava sotto le fornici del Colosseo, di giorno pregava o leggeva le Scritture. Compì numerosi pellegrinaggi, ma tornava sempre a Roma. Lì, morì il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, che lo aveva raccolto per strada svenuto. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Monti

 

16 BERNADETTA SOUBIRUS.jpgBernadette Soubirous  aveva solo quattordici anni, quando l’11 febbraio 1858, una fredda mattina di giovedì grasso, in cui era andata per legna, vide  per la prima volta, alla grotta di Massabielle, quella che per molto tempo lei stessa chiamò semplicemente Quellacosa.  La ragazzina, che  era nata il 7 gennaio 1844, a Lourdes, nella famiglia del mugnaio François, sposato a Louise Casterot, era analfabeta e parlava solo dialetto e fu così che anche Quellacosa prese a parlarle in dialetto. Si sarebbe rifatta viva altre volte, in seguito e, dato che sembrava piacerle pregare, Bernadette si prestava volentieri a recitare con lei la corona. Per come andava il mondo, del resto, pareva non restasse che pregare. Poi vennero i giornali, le autorità, il vescovo, la pubblicità e i profittatori che spuntano sempre. Lei, la piccola non c’aveva mica il fisico, né, a dire il vero, neanche la voglia di tutto questo. Sicché il 7  luglio 1866, si presentò al convento di Saint-Gildard, delle Suore della Carità di Nevers, dicendo: “Vorrei solo nascondermi” e promettendosi: “Non vivrò un solo istante senza amare”. Che era poi quanto aveva appreso dalla sua Signora.  Visse là 13 anni, senza che nessuno ne sapesse più niente, facendo la sacrestana, l’infermiera, e infine la malata. Di un male che non perdona. Della sua malattia dirà: “Sono macinata come un chicco di grano”. Morì trentacinquenne, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Ezechiele, cap.37, 21-28; Salmo (Ger 31, 10-13); Vangelo di Giovanni, cap.11, 45-56.

 

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

 

A noi è sembrato per un momento di leggere un libro di fiabe, nell’apprendere dai vostri giornali che esiste, lì da voi, una Associazione Nazionale delle Mamme e ci è parso bellissimo che si riunissero a congresso, presumibilmente preoccupate per le sconcezze che accadono nel mondo e per gli spettacoli inverecondi proposti da certe Tivu, da certi palazzi del potere e da certe ville dei potenti, che si possono contestualizzare finché si vuole, ma le mamme non smettono di preoccuparsi. Poi, abbiamo letto che quelle mamme erano in attesa di un messaggio e che il messaggio è arrivato. Da un capo del governo della cosa pubblica, che invitava quelle signore giulive a ritirare i loro figli, ma forse di più le figlie, dalla scuola pubblica (di cui un capo di governo dovrebbe essere responsabile), per mandarli(e) a quella privata. Che educa ai valori veri, della famiglia. Come fanno, del resto, presumibilmente anche le sue Tv private, con programmi tipo il Grande Fratello o anche peggio. O come si fa in certe magioni, sempre private, del milanese. Beh, effettivamente, il valore della famiglia può essere tutelato in vario modo. Anche dicendo: insomma, figlia mia, datti da fare. Pensa, appunto!, alla famiglia. A questo punto, crediamo che la scuola privata avrebbe fatto volentieri a meno di un simile testimonial.

 

Noi ci si congeda qui. Con il testo di una canzone del vostro Pierangelo Bertoli, “Ancora tempo”, tratta dal suo Album “Angoli di vita” del 1997. Ma sembra scritta ora, con quelle “macchine di fango pronte a farti male”. Ed è, per oggi, il nostro

  

PENSIERO DEL GIORNO

Prendi ancora tempo, cerca di reagire, guarda fuori piove / Vivi un grande buio dentro giorni tristi, non sai bene dove / Prendi ancora tempo, fermati un istante, tanto fuori piove / Cosa vuoi che serva prendere la porta e via / Prendi ancora tempo lascia che la brezza segua il temporale / Ci saranno donne, altre situazioni, cose da inventare / Porta i tuoi ricordi nei momenti giusti dove stavi bene / Fatti trasportare dove non hai pianto mai / A volte un ombra ti può fare paura e la paura è luce troppo lontana / Ma è dietro agli occhi che manca verità / Raggiunto il fondo la luce arriverà / Se cerchi in te, in te / Prendi ancora tempo, liberati dentro, sciogli le emozioni / Non ci sono scelte, non ci sono i dubbi solo condizioni / Idoli di sabbia, macchine di fango pronte a farti male / Come puoi pensare che non passerà per te / L’anima è diversa quando dalle nubi torna fuori il sole / Quando steso a terra dopo la sconfitta torni a respirare / Prendi ancora tempo, sei tanto stanco / Guarda fuori piove, non ti abbandonare sta ancora almeno un po’ / A volte un ombra ti può fare paura e la paura è luce troppo lontana / Ma è dietro agli occhi che manca verità / Raggiunto il fondo la luce arriverà / Se cerchi in te, in te. /  (Pierangelo Bertoli, Ancora tempo). 

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-16T23:53:00+02:00da fraternidade
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