Giorno per giorno – 31 Marzo 2011

Carissimi,

“Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni” (Lc 11, 14-15). Ridare la parola a chi ne è stato espropriato, ecco ciò che stava facendo Gesù. E non è una parola qualunque, quella che Lui ridona, è niente meno che se stesso, la parola in cui ci riscopriamo nella nostra dimensione di figli del Padre comune. Noi, il Vangelo di oggi, lo si è letto alla chácara di recupero, dove siamo andati nel pomeriggio con William, desideroso di conoscerne più da vicino la realtà. Ed è logico che la riflessione parta sempre da ciò che i nostri amici di là hanno vissuto. L’aggancio, questa  volta, è stato dato dalla similitudine con cui Gesù replica alla critica dei suoi avversari. Helison, Marcelo, Maurício e gli altri, a dire il vero, non sanno neppure bene come sia successo e comunque l’ “uomo bene armato” (v. 21) che li teneva in pugno (l’alcool, la droga) era troppo forte per pensare che esistesse un’alternativa, una qualsiasi via d’uscita. Ma l’imprevedibile è accaduto. Qualcosa, qualcuno (l’uomo “più forte”) li ha scossi e li ha spinti a mettersi in cammino. Ed ora, eccoli qui a fare questa esperienza nuova di una paternità, che trascende ogni altra che possiamo aver conosciuto, e ti raggiunge nel profondo come dono totalmente gratuito, che chiede solo, a causa della sua sovrabbondanza, di essere condiviso, riversandosi sugli altri. Eppure. Eppure, anche se la liturgia di oggi ce ne risparmia il finale, può accadere che lo “spirito” che sembrava definitivamente sconfitto si rifaccia vivo, più determinato e pericoloso di prima. E noi non si ha proprio voglia anche solo di pensarlo. Più che mai oggi, che seu Antonio interrompe il trattamento e se ne torna a casa prima del tempo. E, comunque, lui si sente forte e dice commosso che il Dio che ha conosciuto qui, non lo lascerà più. Né Lui lo lascerà. Come, del resto, non l’aveva mai lasciato, anche quando se ne stava là buttato sul marciapiedi. E Lui, nascosto, a suggerirgli: che stai a fare qui? Torniamo a casa! E, la casa, era quella Parola: Padre!           

 

Oggi la Comunità fa memoria di Maria Skobtsova e Yuri Skobtsov, martiri ortodossi della carità, sotto il totalitarismo nazista.

 

31 Youri Skotsov.jpg31 MARIA SKOBTSOVA.jpgElizaveta Jurevna Pilenko era nata l’8 dicembre 1891 a Riga, in Lettonia, in una ricca famiglia dell’aristocrazia russa. Quando nel 1906, la madre Sofia, rimasta vedova del marito Yuri, si trasferì con la famiglia a San Pietroburgo, la giovane Liza prese a frequentare i circoli intellettuali radicali, facendosi presto conoscere per la sua passione politica e per il suo talento poetico. Nel 1910, a sorpresa, sposò Dmitriy Vladimirovich Kuz’min-Karavaev, un giovane bolscevico (che in seguito diventerà cattolico e sarà ordinato prete), da cui si separò nel 1913. Da una relazione passeggera, avuta poco dopo, nel corso di una vacanza ad Anapa, sul mar Nero, nacque la sua prima figlia, Gaiana. Militante del Partito socialista rivoluzionario, fu in questa stessa città che, nel 1918, delusa dagli sviluppi della rivoluzione, si trasferì e, lì, dove la famiglia paterna era ben conosciuta per avervi dei possedimenti, fu nominata vice-sindaco. Quando la città fu occupata dalle forze anticomuniste dell’Armata Bianca, la giovane fu denunciata e processata come collaboratrice dei bolscevichi, ma riuscì a dimostrare la sua innocenza. Un amico del suo avvocato, il  giovane ufficiale cosacco Daniek Skobtsov s’innamò di lei e la sposò poco dopo. Quando i bolscevichi presero di nuovo il sopravvento, la nuova famiglia si spostò, dapprima, in Georgia, dove, il 27 febbraio 1921, nacque il secondogenito, Yuri, poi a Costantinopoli e in Serbia, dove, il 4 dicembre 1922, nacque Anastasia, e infine a Parigi, nel 1923. La morte improvvisa per meningite della figlia più piccola, il 7 marzo 1926, segnò profondamente la madre e la avviò ad un processo di profonda conversione. Liza cominciò a dedicarsi ai più indigenti tra i rifugiati russi, visitandoli in prigione, negli ospedali, nei manicomi o nelle periferie degradate della città. Diceva: “Ogni persona è l’autentica icona del Dio incarnato nel mondo”. Conobbe e frequentò anche i maggiori rappresentanti dell’ortodossia russa in esilio, come Bulgakov, Berdjaev e il metropolita Evlogij.  Fu quest’ultimo che le consigliò di diventare monaca. Dopo aver chiesto ed ottenuto, nel 1927, il divorzio dal secondo marito, Lisa emise i voti monastici, nel 1932, assumendo il nome di Maria (in ricordo della penitente Maria Egiziaca). Fondò allora il suo monastero, nella rue de Lourmet, a Parigi, dove, vivendo in assoluta povertà, si dedicò all’accoglienza dei più bisognosi tra i suoi fratelli, alla preghiera, e alla riflessione, portata avanti con i suoi compagni di fede, su come rinnovare la vita dell’Ortodossia. Il figlio Yuri, che aveva abitato inizialmenteto con il padre, raggiunse a questo punto la madre. Divenuto lettore e poi suddiacono, officiava le liturgie nella cappella che, nella casa-ospizio materna era stata dedicata alla Protezione della Madre di Dio, partecipando inoltre a tutte le attività della madre a favore dei poveri (che lui chiamava la sua liturgia fuori del tempio) e, successivamente, durante l’occupazione nazista, a favore degli ebrei. È in questo contesto che il giovane venne arrestato dalla Gestapo, l’8 febbraio 1943. Due giorni dopo  venne arrestata la madre e le altre persone coinvolte negli aiuti agli ebrei. Madre Maria venne inviata nel campo di concentramento di Ravensbruck. Lì trascorse due anni in condizioni indescrivibili di crudeltà e disumanità, consolando, incoraggiando e testimoniando fino alla fine la civiltà dell’amore tra le sue compagne di sventura. Morì nella camera a gas il 31 marzo 1945. Il figlio Yuri l’aveva preceduta. Dopo un soggiorno a Dachau, dal 16 dicembre 1943 al 25 gennaio 1944,  fu inviato a Buchenwald, per lavorare nelle officine sotterranee Dora. Dieci giorno dopo il suo arrivo in questo campo, colpito da un’acuta forma di foruncolosi, fu mandato in infermeria, che però non funzionava ancora. Aggravatesi ulteriormente le sue condizioni, lo inviarono ad una destinazione ignota, quella finale. Prima dell’arresto aveva scritto: “Non esiste un problema ebraico, esiste un problema cristiano. Se noi fossimo davvero cristiani, avremmo indossato tutti la stella gialla. È giunto il tempo di confessare. La maggior parte cadranno nella prova, ma il Salvatore ha detto: Non abbiate paura, piccolo gregge”. Madre Maria, suo figlio Yuri, padre Dimitri Klépinine e Ilya Fondaminsky sono stati canonizzati dal Santo Sinodo del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli il 6 gennaio 2004.

 

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Geremia, cap.7, 23-28; Salmo 95; Vangelo di Luca, cap.11, 14-23.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

alencar.JPGLo scorso 25 gennaio, la presidente Dilma, consegnandogli la maggior onorificenza della città di São Paulo, gli aveva detto: “Sono certa che ad ogni brasiliana e brasiliano di questo immenso paese piacerebbe essere qui a São Paulo, che compie oggi 457 anni di esistenza, per consegnare, assieme a noi, questa Medaglia 25 Gennaio al nostro eterno vice-presidente della repubblica, José Alencar”. Ed era probabilmente vero. Al settantanovenne José Alencar, il vice-presidente dei due mandati di Lula, la gente guardava come ad una specie di eroe, più ancora che per la sua capacità imprenditoriale e per la sua attuazione politica, per le sue doti umane e per la lotta che, con determinazione e incrollabile ottimismo, a partire dal 2000, ha combattuto contro il cancro, sottoponendosi a quindici operazioni. Rispondendo a Dilma, José Alencar, in sedia a rotelle, aveva detto: beh, morire adesso sarebbe quasi un privilegio. E, comunque, non posso lamentarmi. La situazione è così buona che non potrebbe essere migliore: tutti stanno pregando per me. E poi, scherzando con il pubblico ha aggiunto: Ho imparato da Lula che i discorsi devono essere un po’ come il vestito delle donne: non troppo corti da scandalizzare, né troppo lunghi da intristire la gente. Se n’è andato l’altro ieri, nel pomeriggio. Ieri e oggi c’è stato il velorio, la camera ardente, per permettere alla sua gente di congedarsi da lui.  Intanto, nel Parlamento italiano, proprio ieri e oggi. Beh, lasciamo perdere!

 

Noi ci congediamo qui. Con una citazione di Mère Marie Skobtsov, tratta dal suo Le sacrement du frère” (Editions du Cerf et Le Sel de la Terre). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ricordarsi del proprio fratello nella preghiera è bene, ma non basta per essere giustificati. Non si può essere giustificati che per l’amore attivo, donando la propria vita per i propri amici, nell’oblio di sé. Cosa significa donare la vita ai propri amici? Qual è la misura suprema dell’amore sacrificale? Aldilà delle indicazioni particolari che desumiamo dal Vangelo, è l’intera opera di Cristo sulla terra a darci la risposta. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16). Il Cristo ci chiama a questo stesso amore. Non possiamo seguire il Cristo senza partecipare, almeno minimamente, a questo “exploit” del sacrificio d’amore. Il discepolo del Cristo è colui che ama il mondo, dona la sua vita per l’altro, accetta persino di essere separato dal Cristo per la salvezza dei suoi fratelli. Al contrario, l’uomo che segue il cammino dell’egoismo, – per quanto “sacro” -,  che si occupa solo della sua salvezza, che non si sente responsabile della sofferenza e del peccato del mondo, costui non ascolta ciò che dice il Signore  e non comprende perché Cristo ha assunto il sacrificio del Golgota. Certo, non è raro che coloro che seguono la via della salvezza individuale si dedichino a certe pratiche apparentemente virtuose: nutrire i pellegrini, assistere i poveri, ecc. Ma lo fanno solo come addestramento ascetico, un esercizio utile alla propria anima. Ora, non è evidentemente questo genere d’amore che il Vangelo c’insegna, ne è per un tale esercizio che Cristo è stato crocifisso. L’amore di Cristo che abbiamo ereditato è un autentico amore sacrificale: è il dono totale della vita, non per ritrovarla con gli interessi, a mio profitto, ma a beneficio unico del prossimo in cui si rivela – per la grazia stessa di questo dono d’anore – l’immagine di Dio (Mère Marie Skobtsov, Le sacrement du frère).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 31 Marzo 2011ultima modifica: 2011-03-31T23:35:00+02:00da fraternidade
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