Giorno per giorno – 05 Novembre 2010

Carissimi,

“Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare” (Lc 16, 1-2). La parabola è nota e lascia quasi sempre perplessi, di primo acchito, per la sua conclusione: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Elogio della disonestà o della furbizia, dunque? A noi non sembra. È una parabola sulla cattiva amministrazione, e perciò sulla controtestimonianza resa all’Evangelo del Regno. Di cui si doveva avere più di un esempio nella comunità di Luca e figuriamoci quanti, poi, nei secoli a venire, fino ai nostri giorni! Siamo tutti, in misura minore o maggiore, amministratori infedeli, che si arricchiscono in vario modo ai danni dell’unico Signore (che sono i poveri). Ed a un certo punto è inevitabile che Lui, che è di questi il portavoce, dica: basta, voglio vedere i bilanci. E noi ci si ritrova peggio che Marcinkus, se mai gli avessero chiesto conto dello lOR. Beh, Gesù con la sua parabola, ci dà un suggerimento: fate come quell’amministratore disonesto, ma anche furbo, che si è fatto amici i debitori del suo padrone. Un po’ come Zaccheo, ci si diceva stamattina, che decise di dare metà dei suoi beni ai poveri e restituire quattro volte tanto a chi gli fosse capitato di frodare. Può anche darsi che il padrone della parabola non sia stato troppo prodigo di complimenti per le trovate del suo ex-dipendente, ma con il Signore è un po’ diverso. Non aspetta che gli rifondiamo ciò che gli abbiamo tolto (come poi? Con pellegrinaggi, messe, penitenze, novene?). No, devolviamolo ai poveri, in tutte le forme che conosciamo: riducendone o estinguendone i debiti, dedicando loro il nostro tempo, partecipando alle loro lotte, difendendo i loro diritti e quant’altro ci suggerisca la nostra fantasia. E allora il Signore elogerà anche noi. Con qualche valido motivo.

 

Oggi il calendario ci porta le memorie del Card. Jules-Géraud Saliège, pastore e “giusto tra le nazioni”,  e di Giorgio La Pira,  il sindaco santo.

 

05 Jules-Géraud Saliège.jpgJules-Géraud Saliège era nato a Mauriac il 24 febbraio 1870. Ordinato prete nel 1895, divenne, due anni più tardi, rettore del Seminario Maggiore  di Saint-Flour, dove resterà fino al 1914, quando partì per il fronte come cappellano militare. Dopo la Guerra, nell’ottobre 1925 fu nominato vescovo di Gap e, nel dicembre 1928, arcivescovo di Tolosa. Il 12 aprile 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Hitler, avvenuta nel gennaio dello stesso anno, mons. Saliège, prese pubblicamente le difese degli ebrei minacciati dall’avanzata del nazismo. Il 19 febbraio 1939  ricordò la condanna, da parte della Chiesa, del razzismo, un errore che PioXI, nella Lettera Enciclica Mit Brennender Sorge aveva dichiarato fondamentalmente contrario agli insegnamenti del Vangelo. Schierato inizialmente, come la quasi totalità dei vescovi francesi, a favore del governo collaborazionista del maresciallo Petain, se ne allontanò decisamente a partire dal marzo 1941, condannandone i principi totalitari e la deriva antisemita. Parrocchie e istituzioni religiose furono da allora sollecitati a ospitare e nascondere gli ebrei perseguitati, a falsificare documenti di identità e redigere falsi certificati di battesimo, a organizzare la fuga dei ricercati in Spagna attraverso i sentieri dei Pirenei. Il 23 agosto 1942 con una Lettera Pastorale che recava la perentoria postilla: “Da leggersi in tutte le chiese senza commenti”, il card. Saliège condannava una volta di più gli orrori a cui si doveva assistere. Sfuggito, il 9 giugno 1944, all’arresto e alla deportazione, per le precarie condizioni di salute che ne impedirono il trasporto, dopo la liberazione fu acclamato come “primo resistente della città” nella piazza del Campidoglio. Ricevette la Croce dell’ “Ordine della Liberazione”.  Il Memoriale Yad Vashem gli diede il riconoscimento di Giusto tra le nazioni (Hasid Ummot Ha-‘Olam), per le molte vite di ebrei che salvò. Creato cardinale il 18 febbraio 1956, morì il 5 novembre dello stesso anno.

 

05 LA PIRA Giorgio.jpgGiorgio La Pira nacque il 9 gennaio 1904 a Pozzallo, in Sicilia, da Gaetano La Pira e Angela Occhipinti, primogenito di sei figli. Giovane studente di Diritto, all’università di Messina, visitava le vecchie baracche della città, portando cibo, medicine, vestiti. Laureatosi a pieni voti, nel 1926, dopo un corso di specializzazione, in Austria, in Diritto Romano, fu chiamato a insegnare all’Università di Firenze. Nel 1928 divenne membro dell’Istituto secolare dei Missionari della Regalità di Cristo, pronunciando i voti religiosi. Nel capoluogo toscano conobbe presto e divenne amico di mons. Elia Della Costa e di don Giulio Facibeni. L’amicizia che contemporanemente instaurò con mons. Montini lo portò a incontrare don Raffaele Bensi, che scelse come suo direttore spirituale. In quegli anni continuò e approfondì il suo impegno sociale, divenendo, durante la dittatura fascista, un coraggioso difensore dei diritti della persona umana. Nell’immediato dopoguerra, eletto Deputato alla Costituente, contribuì, con Moro, Dossetti, Basso, Calamandrei, Togliatti, alla formulazione dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica, affermando le libertà civili e religiose, il diritto al lavoro, il valore della persona umana. Eletto nel 1951 sindaco di Firenze, avviò una politica, le cui priorità erano l’affermazione del diritto alla salute, alla casa, al lavoro e l’instancabile ricerca del dialogo, della pace e dell’amicizia tra i popoli. Abitando, finché la salute glielo permise, in una cella del convento domenicano di san Marco, lavorò senza sosta per abbattere i muri della sfiducia, dell’odio, dell’inimicizia. Incontrò i maggiori leader mondiali dell’epoca, parlando ai cuori e alle menti di tutti, durante le crisi più difficili degli anni 50 e 60. Morì il 5 novembre 1977.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Lettera ai Filippesi, cap.3, 17- 4, 1; Salmo 122; Vangelo di Luca, cap.16, 1-8.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

 

“Ho la stessa età di Silvio Berlusconi. Il prossimo anno festeggio 50 anni di matrimonio. Amavo ed amo la mia donna perché è bella. Amavo ed amo la mia donna perché è intelligente. Amavo ed amo la mia donna perché è fedele e io fedele a lei. Amavo ed amo la mia donna perché è di esempio ai miei figli. Quello che b (volutamente minuscolo) osa chiamare amore è solo sesso nemmeno paragonabile a quello degli animali perché nel loro caso è istinto. Per b è solo vizio e disprezzo per la donna di volta in volta usata”. È la lettera di un certo Umberto da Rimini, che abbiamo letto ne Il fatto quotidiano di ieri.  Che, per quel che ne sappiamo, è rappresentativa (anno o decennio in più, anno o decennio in meno) della storia, della vita e dei valori di tanti nostri amici e amiche (e non solo, ovviamente) di costì. I quali, riteniamo, rappresentano assai meglio il Belpaese di chi ha la pretesa di rappresentarlo, come una macchietta, nel governo della cosa pubblica.

 

Tra le buone notizie di stasera, l’arrivo in anticipo sulla scena del mondo di Daniele, terzogenito dei carissimi amici Carlo e Maria, di Milano. Benvenuto, noi ti si coccola già tutti nelle nostre preghiere!

 

È tutto per stasera. Noi ci si congeda qui con una citazione di Giorgio La Pira, tratta dal suo  L’attesa della povera gente” (Libreria Editrice Fiorentina). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. La parabola dei vignaioli è decisiva in proposito: tutti i disoccupati che nelle varie ore del giorno oziavano forzatamente nella piazza – perché nessuno li aveva ingaggiati: nemo nos conduxit! – furono occupati: esempio caratteristico di “pieno impiego”: nessuno fu lasciato senza lavoro. Che significa, infatti, che tutta la legge ed i Profeti si riassumono nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei io essere disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io devo anche pronunziare per i miei fratelli. Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo: che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle c. d. “leggi economiche” può farmi deviare da questo fine: devo sempre ricordarmi che il Vangelo non è un “libro di pietà” [anche!]: esso è anzitutto un “manuale di ingegneria” [parabola del costruttore, Mt 7, 24-29]: cioè un rivelatore delle leggi costituzionali, ontologiche dell’uomo; le sole leggi che permettono una solida costruzione della vita personale, sociale e storica dell’uomo. Tutta la liturgia quaresimale, con i continui riferimenti all’Antico Testamento, è incentrata attorno a questo pensiero salutare: digiuno sì, ma ricordati che l’essenza più profonda del digiuno sta nell’amore fraterno: frange esurienti panem tuum egenos vagosque induc in domum tuam: spezza il tuo pane all’affamato e dà nella tua casa abitazione ai senza tetto (Is 58, 1-9). (Giorgio La Pira, L’attesa della povera gente).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro

Giorno per giorno – 05 Novembre 2010ultima modifica: 2010-11-05T23:36:00+01:00da fraternidade
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