Giorno per giorno – 04 Luglio 2010

Carissimi,

“Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sè in ogni casa e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: È vicino a voi il regno di Dio” (Lc 10, 1. 3. 8-9). Gesù si è lasciato alle spalle la natia Galilea ed è entrato in Samaria, diretto a Gerusalemme, dove si compirà il suo destino. Sa che il tempo si è fatto breve e che bisogna portare a quante più persone possibile il lieto annuncio. Per questo designa, oltre ai Dodici, altri settantadue discepoli, tanti quanti per la Torah erano i popoli della terra. E dice loro in che consiste l’evangelizzazione: non nel voler circoncidere (o battezzare) tutti quanti, o nel voler convertire a una divinità piuttosto che a un’altra, e neppure nel convocare riunioni oceaniche intorno a slogan che lasciano il tempo che trovano e non cambiano in realtà un bel nulla. No, evangelizzare significa guarire i malati dalle loro malattie, condividere il pane con chi ti accoglie, annunciare loro: ecco questo è il Regno di Dio. Tutto qui? Tutto, ma che impresa formidabile in una società che è retta sull’egoismo e sulla volontà di prevaricazione dei pochi sui più.  Sarete agnelli in mezzo ai lupi e ciò che vi potrà facilmente accadere sarà di fare la Sua fine: morire crocifissi. Però, come alternativa c’e sempre quella di trasformarvi anche voi in lupi. Brandendo magari la croce. Come, di fatto, assai spesso accadde nella storia. E forse accade ancora. Ma, il regno di Dio, in questo caso, è già altrove. Lontano. Lontanissimo. Irraggiungibile.    

 

Da noi si celebra oggi la Festa degli Apostoli Pietro e Paolo, tuttavia quando, giovedì ci siamo riuniti per preparare il Vangelo della domenica, avendo già meditato il brano della confessione di Pietro pochi giorni fa, abbiamo optato di riflettere sul Vangelo di questa 14ª Domenica del Tempo Comune, i cui testi  sono tratti da:

Profezia di Isaia, cap.66, 10-14c; Salmo 66; Lettera ai Galati, cap.6, 14-18; Vangelo di Luca, cap.10, 1-12. 17-20.

 

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le chiese e comunità cristiane

 

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi la memoria di Andrea di Creta, pastore e innografo; di Jean Cardonnel, disobbediente per amore; e di Swami Vivekánanda, mistico indiano, figura chiave nel rinascimento dell’induismo del secolo XIX e promotore del dialogo tra le religioni. 

 

04 ANDREA DI CRETA.jpgAndrea era nato a Damasco, da Giorgio  e Gregoria, una coppia di semiti cristiani, all’inizio della seconda metà del VII secolo. Quindicenne si recò a Gerusalemme ed entrò nel Monastero del Santo Sepolcro. Teodoro, patriarca di Gerusalemme, lo volle suo collaboratore e lo inviò, nel 680, a Costantinopoli, come suo delegato al VI Concilio ecumenico, convocato sotto il regno dell’imperatore Costantino IV. A Costantinopoli, Andrea fu ordinato diacono della Basilica di Santa Sofia e gli fu affidata la cura di un orfanatrofio e di una casa per anziani. Nell’anno 700 fu eletto vescovo della città di Gortina, nell’isola di Creta. Fu celebre come predicatore e compositore di inni sacri. Ci sono stati tramandati circa cinquanta sermoni e numerosi inni a lui attribuiti. Fu anche pastore pieno di premure per il suo popolo, nei tempi calamitosi dell’espansione  musulmana. Tra gli inni da lui composti, il più noto è il Grande Canone, che viene cantato durante la quaresima nelle chiese ortodosse. Andrea morì nell’anno 740, a Mitilene, nell’isola di Lesbo.  

 

04 Jean_Cardonnel.jpgJean Cardonnel, era nato nel 1921 a Figeac (Francia). Entrato nell’Ordine dei Predicatori, nel 1940, fu ordinato prete nel 1947. Tre anni dopo fu fatto priore del convento di Marsiglia. Il caso dei coniugi Rosenberg, scoppiato proprio in quegli anni, lo portò a protestare con fermezza contro la pena di morte. Nello stesso tempo espresse il suo appoggio all’esperienza dei preti operai, avviata negli anni del dopoguerra. Quando, nel 1954, il Maestro Generale dell’ordine venne in Francia per condannarla, Cardonnel, per protesta, si dimise dall’incarico, continuando nel suo ministero come semplice frate. Nel 1958, sempre a Montpellier, denunciò il sistematico ricorso alla tortura in Algeria e si pronunciò per un’Algeria libera e indipendente. Il che gli causò l’allontamento dalla città. Inviato in Brasile per insegnare teologia a Rio de Janeiro, prese presto coscienza dei problemi del Terzo Mondo: povertà diffusa, operai senza salario, contadini senza terra, meninos de rua. Fece in tempo ad apprendere il portoghese, prima che i superiori e l’episcopato chiedessero il suo allontamaneto dal Paese. Nel 1968, con l’appoggio della rivista  Témoignage Chrétien predicò la Quaresima alla Mutualité sul tema “Vangelo e rivoluzione”. Scoppiò così il “caso Cardonnel”. Il giornale Le Monde titolò : “Un prete rosso”. I superiori gli proibirono allora di parlare fuori di ambienti strettamente ecclesiastici e di scrivere su riviste che non fossero di conio teologico e scritturistico, senza aver ottenuto di volta in volta l’autorizzazione dell’Ordinario locale. Ma lui non ci sentì troppo. Continuò  a scrivere, parlare, digiunare, manifestare, marcare presenza in tutti i punti caldi del pianeta. Nel 2002, di ritorno da un viaggio a La Réunion, più che ottantenne, trovò che il priore del convento di Montpellier gli aveva sgomberato la cameretta. Pensò non fosse giusto e denunciò il superiore per violazione di domicilio. Vinse la causa. Fu la prima volta che un tribunale francesce riconobbe che la cella di un frate è un domicilio privato. Jean Cardonnel morì il 4 luglio 2009. Lasciò scritto: “Il vero Dio lo si riconosce dal suono della sua Parola, la Parola fatta carne, nel soffio dello Spirito vivente, che dice a ciascuno di noi, a ciascuno nella nostra singolarità infinita: Anche se una madre dimenticasse il suo bambino, io non ti dimenticherò mai! Tu mi sei unico al mondo, in un mondo in cui bisogna urgentemente che ci siano solo degli unici al mondo”.

 

04_VIVEKANANDA.JPGNarendranath Dutta (tale il suo nome di famiglia) era nato il 12 gennaio 1863,  figlio di Bhuvanesvari Devi, una donna di grande pietà e cultura,   e di un noto avvocato di Calcutta, Bisvanàth. Giovane brillante dall’intelligenza aperta e razionale, dai molteplici interessi e da un profondo senso della solidarietà umana, studiò filosofia e scienza occidentale a Calcutta. Lì incontrò colui che avrebbe fornito le risposte ai molti interrogativi del suo spirito: Sri Ramakrishna, di cui divenne discepolo. Alla morte di questi, nel 1886, Narendranath assunse il nome di Vivekánanda, che significa Beatitudine della conoscenza discernente. Obbedendo al compito, affidatogli dal suo maestro,  di diffondere la conoscenza spirituale e di alleviare la miseria e le sofferenze degli umili e dei poveri, Vivekánanda cominciò a viaggiare in lungo e in largo per l’ India, denunciando l’abbandono e la miseria in cui era costretta la maggioranza della popolazione, lo statuto d’inferiorità della donna, e il vigente, disumano, sistema delle caste. Sollecitò misure concrete e immediate per fronteggiare nella misura del possibile queste sfide e  fece di tutto per sensibilizzare e coscientizzare i ceti intellettuali sulla necessità di favorire il graduale passaggio del potere ai sudra, la casta più bassa e tuttavia maggioritaria dell’India. Nel 1893 Vivekánanda fu richiesto insistentemente di recarsi a rappresentare l’Induismo al Parlamento Mondiale delle Religioni, a Chicago. Dopo aver manifestato qualche resistenza, accettò. Il suo intervento colpì tutti per la sua forte spiritualità. La stampa internazionale gli tributò notevoli riconoscimenti, facendone conoscere la figura e il pensiero negli Stati Uniti e in Inghilterra. E anche in patria conobbe una grande popolarità.  Soleva dire che “la fabbrica, lo studio, la fattoria, i campi, sono tutti luoghi ugualmente idonei all’incontro di Dio con l’essere umano, quanto la cella di un monaco e l’altare di un tempio” e aggiungeva che per lui “adorare Dio significa servire l’essere umano”. Disse anche: “Se proprio volete farvi un’idea del carattere di un uomo, non considerate le sue opere grandi. Il primo sciocco che passa può, in un istante della sua vita, comportarsi da eroe. Guardate piuttosto come un uomo compie le azioni più comuni: esse vi riveleranno il vero carattere di un grande uomo”. Morì il 4 luglio del 1902, a soli 39 anni di età.

 

Ed è un testo di Swami Vivekananda, tratto dal suo “Jnana-Yoga” (Ubaldini), che, nel congedarci, vi offriamo come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il motto di ogni benessere umano e di ogni bene morale è: “Non io, ma tu”. Dimentichiamo per  un istante i problemi del paradiso e dell’inferno, se l’anima esista o non esista, se ci sia un Essere Immutabile o no, ed osserviamo invece questo mondo, così pieno di sofferenze ed infelicità. Entratevi come fece il Buddha, e lottate per diminuire l’infelicità, a rischio di morire nel tentativo. Dimenticatevi di voi stessi e rinunciate ai vostri egoismi: questa è la prima grande lezione da imparare, sia che voi siate teista o ateo, agnostico o vedantista, cristiano o musulmano. La lezione che noi tutti dobbiamo apprendere è quella della necessità di distruzione del nostro piccolo ‘io’ personale e della sua sostituzione con l’Io Reale. Due forze agiscono l’una accanto all’altra su linee parallele. L’una dice: ‘io’, l’altra dice: ‘non io’: esse si manifestano non solo nell’uomo, ma anche negli animali. Così la stessa tigre che affonda gli artigli nel caldo sangue umano darebbe la vita per proteggere i suoi piccoli. L’uomo più malvagio, per il quale la vita degli altri non conta niente, potrebbe essere capace di sacrificare se stesso se si trattasse di salvare la propria moglie e i propri figli che muoiono di fame. In tal guisa in tutta la Creazione le due forze dell’egoismo e dell’altruismo operano l’una a fianco dell’altra: dove trovate l’una, troverete sempre anche l’altra: la prima è affermazione di possesso, la seconda è rinuncia; l’una prende, l’altra dona. […] Quale diritto ha una parte della società di proclamare che il progresso e l’evoluzione dell’universo poggiano su una sola di queste due forze e cioè su quella che crea rivalità e lotta? Che diritto ha di affermare che tutta l’attività dell’universo si fonda sulle passioni prevaricatrici e sulla rivalità fra gli uomini? Indubbiamente tali forze esistono, ma chi saprebbe negare l’esistenza e il potere dell’altra forza, quella dell’amore e dell’altruismo, del ‘non io’, e misconoscere il fatto che il potere di rinuncia che ne scaturisce è la sola forza positiva dell’universo?  (Swami Vivekananda, Jnana-Yoga) .

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 04 Luglio 2010ultima modifica: 2010-07-04T23:15:00+02:00da fraternidade
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