Giorno per giorno – 29 Giugno 2010

Carissimi,

“Essendo Gesù salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: Salvaci, Signore, siamo perduti!” (Mt 8, 23-25). Perché fosse salito in barca e dove fosse diretto, noi lo sappiamo dall’apertura del brano precedente: “Vedendo Gesù una gran folla intornto a sé, ordinò di passare all’altra riva” (Mt 8, 18) e, lì, Matteo aveva inserito i due brevi dialoghi sulla vocazione, per poi tornare a Gesù che sale in barca con i suoi. Del resto, aveva già curato “tutti” i malati che gli avevano portato (v.16), che restava a fare lì, in mezzo alla folla osannante? Meglio, appunto, andare dove c’era ancora bisogno di lui: dall’altra parte del lago, in territorio pagano. Poteva, nello stesso tempo, mettere alla prova la sua piccola comunità, alle prime armi. Così come piccola e alle prime armi si sarebbe trovata ad essere, qualche decennio più tardi, la comunità di Matteo. E lungo i secoli, quante  altre. A pensarci bene, le grandi comunità, potenti, erudite, esperte, è difficile che siano di Gesù: seguono un’altra logica: organizzano, pianificano, comandano. Possono contare, finché dura, sulle proprie forze. Quelle piccole e un po’ imbranate, si fidano e si affidano ad un Altro. Finché ci riescono. Cioè, finché la sua presenza si fa sentire. Ma se Lui dorme [in noi] e c’è burrasca, è finita. Che facciamo ora? “Salvaci, Signore, siamo perduti!”. Già, non ci resta da fare altro: ridestarlo [in noi]. Perché è solo in noi che si è come assopito. Di suo, come “Principio della cura” non lo potrebbe fare, sarebbe sempre attento e vigile. Non a caso il Salmo recita: “Um cochilo tirar pode não, o vigia da santa nação”, “Il custode della santa nazione non può schiacciare nemmeno un sonnellino” (Sal 121, 4). Ma cosa significa che Gesù dorme in noi?, ci chiedevamo stasera a casa di dona Dominga e Ditinha, su, all’Aeroporto. È quando dimentichiamo troppo in fretta ciò che gli abbiamo udito insegnare e visto fare, ciò che Lui è: preoccuparsi degli altri.  Allora, sì, il pericolo è grande. Il rischio è di andare a fondo. Perché viene meno, in un botto, la fede, la speranza e la carità che credevamo di avere. Se, davvero, ti proponi di andare ad evangelizzare qualcuno, chissà magari la “società secolarizzata”, questi gadareni del nostro tempo, che incontreremo nel Vangelo di domani, non riuscirai a farlo con la forza dei ragionamenti, ma solo traducendo nei tuoi gesti i gesti “salvifici” di Gesù. Alle parole, grazie a Dio, non crede più nessuno.     

 

Oggi la Chiesa fa memoria degli Apostoli Pietro e Paolo.

 

29_pedro.jpgSimone (chiamato Pietro, ovvero Roccia), figlio di un certo Giona, (cf Mt 16,17), fratello di Andrea, (Mt 10,12) e, come questi, pescatore, era, con Giacomo e Giovanni, uno dei discepoli prediletti di Gesù (Mc 5,37; 9,2; 14,33), che, per altro,  al momento decisivo, rinnegò (Mc 14,66-72). Fu uno dei primi testimoni della Resurrezione. Dopo la morte di Gesù, divenne figura di riferimento della giovane comunità di Gerusalemme. Una tradizione credibile afferma che morì martire a Roma, durante la persecuzione di Nerone (64-67).       

 

29_paulo.jpgL’ebreo Saulo, (con il nome romano di Paolo), nacque a Tarso, in Cilicia, si recò a Gerusalemme dove per alcuni anni, alla scuola di Gamaliele, studiò la Scrittura, diventando uno zelante fariseo. Persecutore dei cristiani, fu raggiunto dal Signore che lo chiamò a diventare “servo di Dio, apostolo di Gesù Cristo per portare coloro che Dio ha scelti alla fede a alla conoscenza della verità” (Tt 1,1). Partendo da Antiochia di Siria, organizzò, prima con Barnaba, poi con Sila e Timoteo, tre grandi spedizioni missionarie, con l’obiettivo di annunciare il Vangelo ai pagani, fondando numerose comunità cristiane, che, successivamente contribuì a consolidare, visitandole personalmente o inviando loro le sue lettere pastorali. Prima di morire martire a Roma (probabilmente nell’anno 67), potè confessare (secondo la testimonianza dell’autore della lettera a Timoteo): “Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato fino al termine della mia corsa e ho conservato la fede” (2 Tm 4, 7 ).

 

In Brasile la festa odierna è spostata a domenica prossima, così i testi offerti dalla liturgia alla nostra riflessione sono quelli propri di questo martedì del Tempo Comune e sono tratti da:

Profezia di Amos, cap.3, 1-8; 4, 11-12; Salmo 5; Vangelo di Matteo, cap.8, 23-27.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

 

Per quel che ne sappiamo, il buon Dio non fa il tifo per nessuno, perché deve essere giusto e imparziale (o, forse, chissà, no). Però se mai lo facesse, tiferebbe per l’Africa, e, quindi, oltre che per il Ghana, anche per una squadra africana, come il Brasile. Astenendosi, comunque, rigorosamente, da aiuti sottobanco. Anche perché i nostri Juan, Luiz Fabiano e Robinho, solo per menzionare i marcatori della partita di ieri contro il Cile, gli sono riusciti proprio bene da subito. E se la cavano egregiamente da soli. Come anche gli altri, tutti o quasi, però ciascuno nel suo campo, che non è necessariamente quello di gioco. Così, quelli che perdono, hanno ugualmente la nostra ammirazione, anzi di più. Perché chissà quali e quanti altri doni avranno avuto dal buon Dio. Ieri dunque (ma anche oggi, per Spagna-Portogallo), siamo andati una volta di più (anzi, due) a goderci la partita  a casa di dona Almerita. Che si fa sempre in quattro, per metterci a nostro agio. E la pipoca – come chiamiamo qui i pop-corn – mica ce le prepara nei sacchetti. Ciascuno ha a disposizione un’intera baccinella. E c’è chi esagera e se ne fa fuori tre. Ieri, anche solo per sconfiggere la noia della prima mezzora di partita. Ripagata, comunque, eccome, dagli ultimi dieci minuti e dal secondo tempo. Oggi, invece, c’erano pasteis ripieni di carne trita, fritti in molto, molto olio. Che veniva da piangere solo a pensarci. Per via dell’inevitabile accumulo di lipidi a bassa e molto bassa densità. Né la partita è riuscita in qualche modo a consolarci. E, come scrivevamo poco fa a una nostra amica, “ci vedevamo già come il Buddha che morì per aver mangiato, ottuagenario, un piatto di carne, per compiacere, lui vegetariano da sempre, un contadino che glielo aveva offerto come segno di generosa ospitalità. Poi però non siamo morti. Dio è generoso e compassionevole”.

 

Beh, a questo punto, noi ci congediamo. Pietro, Paolo, la Chiesa, le Chiese, le nostre comunità, le burrasche che affrontano. Gesù che dorme in noi e si ridesta. Tutto questo ci è parso di leggerlo in un testo del Card. Carlo Maria Martini, tratto dal suo “La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor” (Rizzoli). Che è l’augurio che ci facciamo tutti noi ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Ricordo che quando ero ragazzo mi ponevo la domanda: come si fa ad amare la Chiesa? La domanda era giusta, perché conoscevo la Chiesa solo come può conoscerla un bambino, battezzato e che ha fatto la prima Comunione. Ma la Chiesa l’ho amata a mano a mano che ho investito in essa le mie energie, cercando di servirla e giocandovi la mia vita. Allora mi è diventata familiare e la riconosco come madre che mi ha generato, nutrito, sostenuto. La amo anche perché manifesta la potenza di Dio. La Chiesa infatti  è la casa voluta da Dio, l’edificio da lui piantato quale “colonna e sostegno della verità” – scrive Paolo -, e in essa mi sento al sicuro. È una casa dove possono esserci talora invidie e calunnie. E tuttavia la Chiesa è più grande degli uomini, perché è la sposa di Cristo e con gli occhi della fede la vediamo come il regno di Dio che viene. Chi inizia l’esperienza di Chiesa può essere preso da paure e da timore, ma se persevera la scorge in tutta la sua verità e maternità. E io prego per voi, nel desiderio che la conosciate sempre meglio come madre, come luogo in cui ci si sente a proprio agio; se un giorno venisse meno per voi un sostegno umano o un’amicizia troverete sempre in essa una dimora accogliente. La sicurezza della Chiesa deriva soprattutto dal mistero della fede, da Gesù proclamato in essa, che Paolo chiama “il mistero della pietà”, per ricordarci che è un mistero di Amore. Pietà infatti significa amore compassionevole per noi di Dio, che ci è vicino con tenerezza, ci capisce, ci comprende fino in fondo. E quindi il suo mistero non è soltanto di gloria o di fede, ma pure mistero dell’Amore paterno e materno del Signore per ciascuno di noi. (Carlo Maria Martini, La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Giugno 2010ultima modifica: 2010-06-29T23:51:00+02:00da fraternidade
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