Giorno per giorno – 20 Maggio 2010

Carissimi,

“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21). Oggi si conclude questa lunga preghiera di Gesù, che Giovanni situa nel contesto dell’Ultima Cena, e Dio solo sa quanto ce ne sia di bisogno, per le Chiese, per la Chiesa (e, perciò, per noi che ci stiamo dentro), e, naturalmente, per il mondo. Perché, anche attraverso noi, esso arrivi a credere a (cioè, assumere) quella proposta di unità, che nasce da “come” il Padre e il Figlio vivono la loro relazione d’amore. Se anche non si volesse credere nel Padre e nel Figlio, non ci si rispecchiasse, cioè, nel linguaggio religioso del simbolo o del mito, non importa: guardando al “come” è raccontato quell’amore, si potrebbe scoprire in esso qualcosa da prendere in considerazione, capace di cambiare le cose, di suggerire, per esempio, la gioia di vivere. Valdecí, stamattina, diceva che quando in una casa si cominciana a fare i conti su chi ha dato di più, è già l’inizio della fine. Nel senso che non funziona più nulla come prima. E tutti ritengono che, sul piano del dare e dell’avere, stanno operando in perdita. Una madre, un padre, un figlio, uno sposo, una sposa, un fratello, una sorella, un amico, il cui amore nasca invece  da quel “come”, registrano un solo debito, che non è mai ciò che ci si si aspetta dagli altri, ma ciò che si può dare ogni volta di più. Sempre attenti ad accogliere l’altro(a) così come è, anzi proprio perché è così, ad ogni istante, nella parabola disegnata dalle sue inevitabili trasformazioni. Senza pretendere di ridurlo(a) a misura dei propri sogni, progetti, desideri; non cessando, invece, mai di stupirsi davanti al dono che egli (ella) oggettivamente rappresenta. Il che, se è relativamente facile, ad una madre, come dona Dominga, ma anche, Valdecí (lo scopriamo ogni volta di più) o altre, risulta più difficile in altre relazioni di parentela, di amicizia, di associazione, di chiesa. Del resto, se non fosse difficile, anzi quasi impossibile, Gesù non avrebbe ritenuto necessario pregare per questo. In questa parte del mondo, la novena di Pentecoste è particolarmente dedicata alla preghiera per l’unità dei cristiani, che non può essere confusa con il desiderio che tutti diventino cattolici (e, magari, proprio come noi!), ma dev’essere vissuta come apprendistato ad apprezzare e contemplare la bellezza del dono che le altre chiese (ma non solo esse, le altre comunità religiose, i portatori di altre visioni della vita) rappresentano per noi, con il loro modo di credere, lodare, servire a Dio (o, semplicemente, la Verità)  e di prendersi cura dei fratelli e della terra che abitiamo. Diverso dal nostro, si certo! Ed è qui il bello. Se no, il Padre, invece di un Figlio, si sarebbe costruito un enorme specchio. E, invece di Dio, sarebbe un narcisone infinito. E noi, in questo caso, neppure ci saremmo, né ci sarebbe il mondo. Solo, appunto, quel narciso, alla lunga ucciso dalla noia, e uno specchio rotto.  

 

Oggi noi si fa memoria di Pietro di Cordova, missionario difensore degli indigeni, Michael e Margaretha Sattler, martiri anabattisti, e Paul Ricoeur, cristiano e filosofo.

 

20 PEDRO DE CORDOBA.jpgNato a Cordova, in Spagna, nel 1460, il giovane Pietro entrò nell’Ordine dei Predicatori e fece parte con Antonio di Montesinos e Bernardo di Santo Domingo, del primo gruppo di domenicani inviato a evangelizzare l’isola Española (l’attuale Repubblica Dominicana), dove giunse nel settembre del 1511. La difesa della popolazione indigena fu il grande compito che questi frati coraggiosi si diedero, da subito, comprendendo bene che non è possibile predicare l’Evangelo, senza denunciare l’ingiustizia e l’oppressione che regnano nella società. Fu così che, a pochi mesi dal suo arrivo sull’isola, la comunità decise di denunciare pubblicamente la situazione drammatica che si presentava ai suoi occhi. Insieme i frati redigirono l’omelia della IV domenica di Avvento (21 dicembre 1511), delegando poi il padre Antonio de Montesinos a pronunciarla davanti alla popolazione e alle autorità. Quando l’ammiraglio Diego Colombo, vicere dell’isola, figlio del più celebre Cristoforo, si precipitò per fare le sue rimostranze dal superiore del convento, che era appunto Pietro di Cordova,  questi gli rispose fermo e tranquillo: “Signore, mi permetta di ricordarle che noi, avendo posto le nostre parole e le nostre azioni al servizio del Re dei re, non possiamo che conformarci a ciò che è giusto, assolutamente giusto, e d’accordo con le leggi divine. Nulla, né nessuno, per quanto potente, riuscirà a piegare la nostra energia e distogliere da esse i nostri sforzi”.  Si deve a Pietro di Cordova la redazione del primo catechismo destinato agli indigeni. Il frate morì a 38 anni, di tubercolosi, conseguenza della grandi penitenze cui si era sottoposto in vita.

 

20 sattler-ivanmoon.jpgMichael Sattler era nato nel 1490 a Stauffen, nella regione tedesca del Baden Württenberg. Entrato nel monastero benedettino di San Pietro, nella Foresta Nera, vi aveva compiuto gli studi ed emesso i voti religiosi,  ed in seguito era stato eletto priore. Erano gli anni della Riforma  e Michael, turbato dalla corruzione che vedeva diffusa nella chiesa e dalle miserabili condizioni di vita dei contadini della regione, e questionato dalla rilettura che Lutero faceva della proposta cristiana, decise di lasciare lo stato religioso. Recatosi a Zurigo nel 1525, apprese e cominciò ad esercitare il mestiere di tessitore. Venuto nel frattempo  in contatto con gli anabattisti della zona, chiese di far parte del loro gruppo e di essere ribattezzato. A Strasburgo, l’anno seguente, conobbe e sposò Margaretha, la donna che ne avrebbe condiviso il destino fino alla morte. Il 24 Febbraio 1527, nella cittadina svizzera di Schleitheim, Sattler redasse, per conto della sua chiesa, i Sette articoli di Schleitheim, il documento che sintetizza i fondamenti dell’anabattismo. Poco dopo la conclusione della riunione di Schleitheim, Settler, la moglie ed altri 18 anabattisti furono arrestati e trasferiti a Rottenburg, nel Baden Württenberg, per esservi processati. Il processo, apertosi il 15 Maggio 1527, si concluse tre giorni dopo con la condanna di Sattler al mozzamento della lingua, alla mutilazione delle membra con tenaglie roventi e alla morte sul rogo. Sattler affrontò la condanna e la sua esecuzione, avvenuta il 20 maggio 1527, con grande serenità. Due giorni dopo, la moglie Margaretha fu uccisa mediante annegamento nel fiume Neckar. Era questa la pena che il cattolicissimo Ferdinando d’Asburgo definiva il migliore antidoto contro l’anabattismo, il terzo battesimo.

 

20 RICOEUR.jpgPaul Ricoeur era nato il 27 febbraio 1913 a Valence (Drôme) in una famiglia di antica tradizione protestante. Rimasto orfano dei genitori ancora bambino (la madre morì poco dopo averlo dato alla luce, il padre nel 1915, al fronte, durante la Preima Guerra mondiale), fu allevato, assieme alla sorella, dai nonni, a Rennes. Nel 1935 sposò Simone Lejas, un’amica d’infanzia da cui avrà cinque figli. Prigioniero di guerra per cinque anni nei lager tedeschi a partire dal 1940, al ritorno in patria fu tra gli animatori della rivista Esprit, tribuna dell’esistenzialismo cristiano, e amico di Emmanuel Mounier, suo fondatore. Insegnò in seguito all’Università di Strasburgo, poi alla Sorbona e presso la nuova Università di Nanterre e, a partire dal 1970, negli Stati Uniti, alle università di Chicago, Yale e Columbia, oltre che a Lovanio (Belgio),  Ginevra (svizzera) e Montréal (Canada). Morì il 20 maggio 2005, presso la sua abitazione di Châtenay-Malabry (Hauts-de-Seine).  Ebbe a definire l’uomo “la Gioia del Sì nella tristezza del finito”. E propose un’antropologia da cui emerge un uomo fragile, “sproporzionato” e continuamente sul baratro tra il Bene e il Male, capace di peccato e fallimenti. E tuttavia, “per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo come la bontà. Qualunque sia il male commesso, in ogni uomo esiste una particella di bontà da tirar fuori. La religione non è fatta per condannare; è una parola che dice: ‘Tu vali più delle tue azioni’. Si può liberare il fondo di bontà che è in ciascuno di noi se si accetta d’essere strutturati dai grandi simboli che sono alla base delle grandi religioni”.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.22, 30; 23, 6-11; Salmo 16; Vangelo di Giovanni, cap.17, 20-26.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

È tutto anche per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una citazione di Paul Ricoeur, tratta dal suo libro “La critica e la convinzione” (Jaca Book), che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Mi è sempre sembrato che l’enorme carica narrativa dei racconti, che riportano la scoperta della tomba vuota e le apparizioni del Cristo risuscitato facessero da filtro alla significazione teologica della risurrezione in quanto vittoria sulla morte. La proclamazione: “Davvero il Signore è risorto” (Lc 24,34) mi pare che superi per vigore affermativo il suo investimento nell’immaginario della fede. Non è, forse, nella qualità di questa morte che sta la messa in moto del senso della risurrezione? Trovo, qui, un appoggio in Giovanni, per il quale la “elevazione” del Cristo comincia sulla Croce. Mi sembra che questa idea di elevazione – al di sopra della morte – si sia ritrovata poi narrativamente sparsa tra i racconti di crocifissione, di risurrezione, di ascensione, di Pentecoste, che hanno dato luogo rispettivamente a quattro distinte feste cristiane. Proprio qui, forse ancora una volta sotto la spinta del filosofo che è in me, sono tentato, sulle tracce di Hegel, di comprendere la risurrezione come risurrezione nella comunità cristiana, la quale diventa il corpo del Cristo vivente. La risurrezione consisterebbe nell’avere un altro corpo da quello fisico, vale a dire nell’acquisire un corpo storico. Sono, forse, interamente eterodosso? Mi sembra di dare qui un prolungamento a certe parole di Gesù vivente: “Chi vuol salvare la propria vita, la perda”, parola mirabile che non annuncia alcuna prospettiva sacrificale; e altrove: “Sono venuto per servire e non per essere servito”. L’accostamento fra questi due testi mi suggerisce che la vittoria sulla morte nell’atto del morire non sia differente dal servizio agli altri, che si prolunga, sotto la guida dello spirito del Cristo, nella diaconia della comunità. (Paul Ricoeur, La critica e la convinzione).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-20T23:27:00+02:00da fraternidade
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