Giorno per giorno – 02 Maggio 2010

Carissimi,

“Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 33-35). Giovedì sera, abbiamo meditato questo Vangelo a casa di Valdecí e ci siamo detti: Pare addirittura scontato, eppure è così difficile da mettere in pratica. Del resto la stessa Valdecí lo ripete spesso: a volte risulta più facile fare del bene a degli estranei (il che non coincide necessariamente con il “voler bene”), che a persone della propria famiglia o comunità; o, anche, perdonare a dei nemici che agli amici da cui ci si scopra traditi. Eppure è proprio da come viviamo questi nostri legami quotidiani, più che dalle spesso superficiali emozioni con cui può capitare di guardare alle tragedie del mondo, lontane mille miglia, che noi testimoniamo la nostra fede e la nostra obbedienza al Signore Gesù. Già, vi do un comandamento nuovo, ultimo, definitivo: amatevi gli uni gli altri. Non in qualunque modo, ma “come io ho amato voi”. Nel dono quotidiano, fino alla morte. Così, ogni volta che qualcuno è portato a disperarsi per le sue infedeltá, ecco che gli torna all’udito del cuore l’invito: Ama, perdona, come io ti ho già perdonato. Giuda era appena uscito e, dice il Vangelo, era notte. La notte è quella del tradimento nostro nei confronti del significato di Gesù, quando lo svendiamo per racimolare le nostre trenta monete d’argento; chissà, qualche pezzo di potere, un beneficio o un finanziamento in più per la nostra chiesa, il nostro movimento, la nostra comunità, o anche solo, a livello personale, il nostro gustare una rivincita, coltivare un risentimento e crogiolarci in esso. Snaturando, così, la nostra fede e la testimonianza del Vangelo. Notte anche di Dio, abbandonato e angosciato, nell’abbandono e nell’angoscia dei suoi poveri. Notte, se lo vogliamo, della ritrovata intimità con Lui, che si dispone a rivelarci il suo segreto: la sua croce e la sua morte imminente come culmine della gloria di Dio. Momento, in cui tutto, anche il tradimento di Giuda, la durezza di cuore dei sacerdoti, la crudeltà di Pilato e dei soldati romani, la viltà dei discepoli, tutto cospira a farci conoscere Dio come è: assoluto e incondizionato amore. In quella notte Gesù ci affida questo comadamento, che in realtà è un dono: testimonare, nel nostro amore e perdono vicendevole, il “come è di Dio” il “come dovrebbe essere il mondo”. Noi, lo vorremo deludere, scegliendo altro?

 

I testi che la liturgia di questa 5ª Domenica di Pasqua propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.14, 21b-27; Salmo 145; Libro dell’Apocalisse, cap.21, 1-5a; Vangelo di Giovanni, cap. 13, 31-33a. 34-35.

 

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

 

Il nostro calendario ci ricorda oggi Atanasio, Pastore e Padre della Chiesa, Matrona di Mosca, mistica, e Paulo Freire, educatore dalla parte degli oppressi.

 

02 ATANASIO BIS.JPGAtanasio era nato ad Alessandria d’Egitto nel 295. Appena ventenne si era fatto conoscere nella sua Chiesa per due discorsi, uno “Contro i greci”, l’altro “Sull’Incarnazione” che rivelavano, oltre che la sua fede profonda, una notevole capacità di argomentazione teologica. Per questo, quando nel 325 l’imperatore Costantino convocò il Concilio di Nicea, per risolvere il problema della divinità di Cristo,  il suo vescovo, Alessandro, pensò bene di portarselo appresso come consulente teologico. Tre anni più tardi, alla morte dell’anziano patriarca, l’ancor giovane Atanasio venne chiamato a succedergli nella cattedra che la tradizione vuole sia stata di san Marco. Erano tempi grami tuttavia. Costantino non ne capiva molto di dispute teologiche, ma,  deve aver pensato che giovasse più al potere imperiale l’immagine di un Dio unico punto e basta (sostenuta da Ario), che questa Unità del molteplice, o molteplicità dell’Unità,  implicata dal Dio trinitario degli ortodossi, di cui Atanasio era diventato campione. Sicché, con uno strategico voltafaccia, scelse alla fine le tesi più vicine ad Ario, spedendo in esilio Atanasio. Quest’ultimo, tuttavia, seguitò imperterrito. Non aveva accettato di essere vescovo per andare a braccetto col potere e con le mode del suo tempo. Sicché, le condanne si susseguirono negli anni, con i diversi imperatori: Costanzo, Giuliano e Valente. Questi allontanamenti frequenti, portarono Atanasio a contatto con i monaci del deserto, con Antonio, in primo luogo, di cui il vescovo scriverà poi la vita, contribuendo in tal modo, a diffondere l’ideale monastico in tutta l’ecumene cristiana. Divenuto vecchio, ma non vinto, fu finalmente, dietro la pressione popolare, restituito alla sua sede patriarcale per l’ultima volta. Lì morì, pacificamente, tra la gente che l’amava, il 2 maggio dell’anno 373.

 

02 Matrona-Mosca.jpgMatrona Dimitrievna Nikonova nacque nel 1881 nel villaggio di Sebino, nel governatorato di Tula, quarta figlia di una famiglia di contadini. Nata priva della vista, fu arricchita, fin da bambina, di numerosi carismi, compreso il dono della cura. A quattordici anni potè recarsi in pellegrinaggio a numerosi monasteri, a Kiev, a San Pietroburgo e in altre città russe. San Giovanni di Kronstadt, incontrandola nella sua chiesa, la chiamò “colonna della Russia”. A 17 anni, Matrona perse l’uso delle gambe e rimase paralizzata per il resto della vita. Benché analfabeta, meravigliava chi l’andava a visitare per la conoscenza di luoghi e fatti lontani. Nel 1925, si trasferì a Mosca, vivendo da allora in casa di amici e benefattori e dedicandosi  ad accogliere ogni giorno quanti venivano a chiederne i consigli o la preghiera per ottenere la guarigione da qualche male fisico o spirituale. A tutti dispensava parole semplici e piene di saggezza, che esortavano ad amare il prossimo, a partecipare ai santi misteri, a soccorrere quanti versassero in condizioni di bisogno, soprattutto malati e anziani. Matrona si spense il 2 maggio 1952.

 

02 PAULO FREIRE.jpgPaulo Reglus Neves Freire nacque il 19 settembre 1921, a  Recife, nello Stato del Pernambuco, una delle regioni più povere del Brasile, dove potè sperimentare sulla propria pelle le difficoltà di sopravvivenza delle classi più povere. Nel 1944 conobbe e sposò Elza Maia Costa Oliveira, insegnante elementare, da cui apprese il gusto per l’educazione, a cui dedicherá tutta la vita. La sua proposta pedagogica, conosciuta come “pedagogia degli oppressi”, mira a stimolare l’azione dell’essere umano sulla realtà. Portando i soggetti del dialogo educativo a condividere condizioni di vita, sofferenze e aspirazioni, li rende capaci di una trasformazione creatrice del mondo. Arrestato nel corso del colpo di stato del 1964, dopo 72 giorni di prigionia, fu costretto a lasciare il paese. Si rifugiò in Cile, dove per cinque anni lavorò ai programmi di educazione per adulti e scrisse la sua opera maggiore. In seguito insegnò in numerose università straniere e collaborò nei progetti educativi di vari Paesi, delle Nazioni Unite e del Consiglio Mondiale delle Chiese. Rientrato in Brasile nel 1980, riprese il suo impegno pedagogico come professore universitario, come animatore del movimento di educazione popolare e come attivo partecipante delle comunità ecclesiali di base. La sua prassi educativa ricevette numerosi riconoscimenti a livello mondiale. Freire morì a São Paulo di infarto al miocardo il 2 maggio 1997.

 

Stamattina alle undici è nata, all’Ospedale São Pedro, Giovana (proprio così, con una enne sola, per non sprecarsi troppo), figlia di Nativa e di João, figlio di dona Dominga. Giovana, bellissima come si conviene, è quasi cinque chili di bambina, che non sappiamo come il corpo minuto della mamma arrivasse a contenerla. Si viene ad aggiungere a Natália e Natanael. Parabens ai genitori!

 

Noi ci congediamo qui, lasciandovi ad un brano di Paulo Freire, tratto dalla sua “Pedagogia do Oprimido (Paz e terra). Che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Scoprirsi nella posizione di oppressore, anche soffrendone, non è ancora diventare solidali con gli oppressi. Diventare solidali con questi è qualcosa di più che dare assistenza a una trentina o a un centinaio di essi, mantenendoli però legati alla stessa posizione di dipendenza. Diventare solidali non è avere coscienza di sfruttare e “razionalizzare” però questa colpa paternalisticamente. La “solidarietà”, esigendo da chi diventa solidale di “assumere” la situazione di coloro con cui vuol essere solidale, è un atteggiamento radicale. […] L’oppressore diventa solidale con  gli oppressi solo quando il suo gesto cessa di essere un gesto sentimentale, di falsa generosità e diviene un atto d’amore. Quando gli oppressi non sono più per lui un nome astratto e divengono uomini concreti, che subiscono ingiustizia e ladrocinio. Gli è rubata la parola, il loro lavoro è comprato, e la loro persona è venduta. La vera solidarietà nasce solo nella pienezza di questo atto di amore, quando esso diviene esistenza e prassi. Dire che gli uomini sono persone, e in quanto persone sono liberi, e poi non agire concretamente affinché quest’affermazione  diventi obiettiva, è una farsa. ( Paulo Freire, Pedagogia do Oprimido).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-02T23:58:00+02:00da fraternidade
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