Giorno per giorno – 01 Maggio 2010

Carissimi,

“Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che, quale ricompensa, riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore” (Col 3, 23-24). È la prima lettura che la liturgia ci propone in questa memoria di san Giuseppe Operaio. E,  se c’è qualcuno per cui queste parole della lettera ai cristiani di Colossi, dirette a chi lavora al servizio di altri, questi è proprio il padre di Gesù. Perché, nel suo caso, non è che egli lavorasse “come fosse” per il Signore, ma egli proprio lavorava per il Signore. Anche se possiamo supporre che non dovesse avere troppo chiaro cosa questo significasse. Non importa, avanti, a testa bassa, lavorando duro e, più tardi, insegnando a quel figliolo arrivato come dono di Dio la disciplina del lavoro e l’amore per i suoi insegnamenti. Per quel che è dato capire dai Vangeli, egli non dovette arrivare a vedere i risultati. Ma forse fu meglio così, li potè vedere in un’altra prospettiva, capendone di più. Da vicino, forse, combattuto tra ammirazione, stupore e delusione, per gli esordi e lo sviluppo della sua missione, e poi per la fine a cui l’avrebbe visto andare incontro, si sarebbe forse lasciato vincere dal dubbio e dallo sconforto di fronte alla domanda, legittima in ogni padre: Dove ho sbagliato, perché sia finito così? E non aveva sbagliato in nulla. Anzi. Così finiscono, inevitabilmente, assieme ai peccatori e ai criminali, anche quelli che somigliano troppo a Dio. Per l’amore viscerale che Lui ha per i suoi figli, come che siano. Allora, Giuseppe aveva sbagliato, se questo è un errore, insegnando ad amare troppo e a prendere troppo sul serio la Sua Parola. Paradossale, è? Insegnare la Parola alla Parola  fatta carne. E Gesù apprendeva silenzioso e docile l’abc del Regno: fate di cuore ogni cosa, come per il Signore.   A noi stasera, in chiesa, guardando Djarí, accanto a Né, sua sposa, promettendo lui a lei e lei a lui quella fedeltà e quell’amore che coltivano da venticinque anni, veniva in mente Giuseppe. Lui fa un lavoro umile, umilissimo, ma lo fa, da sempre,  di cuore, come per il Signore.     

 

Bene, oggi la Chiesa celebra la Festa di san Giuseppe operaio.

  

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I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono propri della festività odierna e sono tratti da:

Lettera ai Colossesi, cap.3,14-15.17.23-24; Salmo 90; Vangelo di Matteo, cap.13,54-58.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

Il calendario ci porta, sempre oggi, la memoria di Takashi Nagai, testimone di pace.

 

01 TAKASHI NAGAI.gifTakashi Nagai era nato a Matsue City, in Giappone, il 3 febbraio 1908, primo dei cinque figli di  Hiroshi e Tsune Nagai. Terminato il liceo, s’iscrisse alla Facoltà di Medicina di Nagasaki, vivendo a pensione nella casa dei Moriyama, una famiglia cristiana da diverse generazioni. Nel 1932, conseguita la laurea, si specializzò in radiologia al Medical College di Nagasaki. L’anno successivo, arruolato in fanteria, fu inviato sul fronte della guerra cino-giapponese, con cui il Giappone, sfruttando l’incidente di Mukden (1931), volle annettersi la Manciuria. Fu allora che ricevette in dono, speditogli dalla figlia dei Moriyama, Midori, un piccolo catechismo, che lo portò a interessarsi al cristianesimo. Tornato nel 1934 in Giappone chiese di essere battezzato, scegliendo il nome di Paolo. Due mesi dopo sposava Midori,  da cui avrebbe avuto due figli. Nel 1937, fu inviato nuovamente in Cina, dove restò fino al 1940, quando, tornato a Nagasaki, riprese il suo lavoro universitario. Nel giugno 1945, fu diagnosticata a Nagai una grave forma di leucemia, conseguenza dell’attività di radiologo, che svolgeva e gli dissero che aveva solo tre anni di vita. Il 9 agosto 1945, alle 11:02 del mattino, una bomba atomica sganciata da un B-29 americano esplodeva su Nagasaki, seminando morte e distruzione. Nagai si trovava nel suo studio all’Università di Nagasaki, a circa 700 metri dall’epicentro dell’esplosione che provocò la morte di oltre 80 mila persone, tra cui sua moglie. Nonostante la malattia e le nuove terribili lesioni che lo colpirono, Nagai continuò a dedicarsi finché potè a portare soccorso ai superstiti, a fare attività di ricerca,  a insegnare e a pubblicare libri. Nel marzo 1948, ottenuta la pensione,  si trasferì nel Nyokodo, “il piccolo eremiterio”, costruito nei pressi delle rovine della cattedrale di Urakami. Sapendo che i suoi figli, Makoto e Kaiano, dopo aver perso la madre, sarebbero presto rimasti orfani anche di lui, scrisse numerosi racconti a loro dedicati, per poter in qualche modo continuare il dialogo anche dopo la sua morte. La maggior parte dei proventi dei suoi lavori fu destinato a quanti, bambini e adulti, stavano soffrendo le conseguenze della bomba atomica. Uomo di profonda preghiera, cercò di approfondire il significato che, alla luce della fede cristiana, poteva avere questo insostenibile cumulo di sofferenze. Pensò di aver trovato la risposta: Nagasaki era stata scelta come città vittima e testimone della causa della pace tra i popoli. E volle in questo leggere anche il significato della sua vita e della sua morte. La fine sopraggiunse improvvisa la mattina del 1° Maggio 1951, subito dopo aver invitato i presenti a pregare.  Aveva 43 anni. Sulla tomba volle fossero incise le parole del Vangelo: “Siamo servi senza valore; abbiamo fatto ciò che dovevamo” (Lc 17,10).

 

01 LAVORO.jpg“Una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi”. A deciderlo, il 20 luglio 1889,  fu il Congresso della Seconda Internazionale, riunito in quei giorni a Parigi. E fissarono la data del Primo Maggio, per ricordare le grandi manifestazioni operaie svoltesi nei primi giorni di Maggio, tre anni prima, a Chicago, che erano state soffocate nel sangue.  Così, a partire dal 1º Maggio 1890, con esiti alterni e con alcune interruzioni, in diversi paesi, cominciò a celebrarsi la Festa dei Lavoratori, o la Festa del Lavoro. Come momento di riflessione, coscientizzazione, rivendicazione e lotta del e sul mondo del lavoro. Per noi, qui, soprattutto, sui temi della disoccupazione, della precarietà, dello sfruttamento, della sottoretribuzione, dell’insalubrità e pericolosità degli ambienti e dei ritmi di lavoro, del mancato rispetto dei pochi diritti conquistati, e altro ancora. Che molti subiscono passivamente e di cui ad altri poco importa. Ma, qualche cosa cambia, è già cambiato, sotto l’amministrazione Lula, per esempio. E altro cambierà.

 

Dunque, stasera, abbiamo celebrato le nozze di e Djarí, e non vi diremo nulla, se non che è stato tutto al di là di ogni aspettativa. Al punto che noi stessi si stentava a credere a ciò che vedevamo, e persino il vescovo scuoteva la testa e rideva per la felicità. Con Djarí che sembrava un lord inglese, anzi di più. E , la regina madre, ma quando era giovane. E Ana Carolina, Maria Paula, Andressa, fatine di sogno, e Betão il loro principe. Eliane, poi, che era stata la regista di tutto, organizzando questo stupendo mutirão, in cui ciascuno, senza niente, aveva dato o fatto qualcosa, sprizzava felicità da ogni poro, e lacrime dagli occhi. Dio, poi, quei due sposini d’annata, se li è certo spupazzati più che mai in grembo, come non ha mai smesso di fare, da quando si sono innamorati l’uno dell’altra. Venticinque anni fa. A noi non resta che dire “grazie” a quanti da lì, dall’altro lato dell’Oceano, si sono fatti vivi con un messaggio augurale. La vostra amicizia li ha commossi anche di più.       

 

Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad una riflessione sul lavoro, stesa dal nostro Don Augusto, preteoperaio in pensione, tre anni fa, in occasione di una veglia di preghiera dei lavoratori nella Cattedrale di Parma, la vigilia del Primo Maggio. La trovate per intero nel sito di Sestogiorno.it ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Dobbiamo avere attenzione al lavoro perché questo ci consente di rimettere in dialogo la fede con la vita quotidiana: rapporti ed etica professionali, redditi, tasse, proprietà, concorsi, carriere. Dobbiamo avere attenzione al lavoro perché la realtà umana del lavoro allude a Dio: se è vero che Dio ha a cuore la vita umana e le cose quotidiane, allora è vero che nulla è senza senso. Il lavoro contiene una dimensione esistenziale della persona perché continua ad essere una fonte di identità sociale nonostante la rivoluzione recente del mercato del lavoro che ci obbliga a parlare non più di lavoro, ma di ‘lavori’. Anzi proprio per questo è necessario tornare a pronunciare una riflessione profetica. Inoltre il lavoro conta perché, misurandosi nel lavoro, uno capisce se stesso, i suoi limiti, le sue virtù, la sua capacità di relazione; e capisce anche la società e i suoi meccanismi. Il lavoro contiene anche una dimensione sociale: nella società postmoderna o dei mille lavori e mestieri, si è smarrito il significato ed il senso del lavoro. L’idea ‘alta’ del lavoro come dovere sociale si è lentamente sgretolata, introducendo una concezione del lavoro solo in vista del guadagno. Scrive l’Enciclica Laborem Exercens n. 9: “Il lavoro è non solo un bene ‘utile’ o ‘da fruire’, ma un bene ‘degno’, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e l’accresce…perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso ‘diventa più uomo’.”. Il lavoro contiene anche una prospettiva cristiana della vita. Vale ancora richiamare il triplice primato indicato dall’Enciclica Laborem exercens: primato dell’uomo sul lavoro, primato del lavoro sul capitale, primato dell’utilità comune sulla proprietà privata. […] Ma soprattutto se voglio capire il lavoro dal punto di vista cristiano, devo collocarlo nella prospettiva del regno di Dio, cioè nel primato di Dio che ridimensiona anche il lavoro: oggi da parte di molti occupati c’è perfino un eccesso di lavoro, o perché ne sono costretti per sfruttamento o perché lo vogliono per acquistare più beni di consumo. La comunità cristiana ha forse il compito di proclamare che certe regole del gioco non sono ineluttabili e immodificabili e che è possibile un lavoro “dai confini grandi”, a misura d’uomo e di famiglia e non solo di moneta. (Don Augusto Fontana).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 01 Maggio 2010ultima modifica: 2010-05-01T23:27:00+02:00da fraternidade
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