Giorno per giorno – 16 Febbraio 2010

Carissimi,

“Allora Gesù li ammoniva dicendo: Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode! Ma quelli discutevano fra loro perché non avevano pane. Si accorse di questo e disse loro: Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?” (Mc 8, 15-18). Ieri, ci si diceva che Gesù aveva deciso di imbarcarsi con noi. Comunque fossimo, comunque la pensassimo. Se l’era in qualche modo voluta. Hai voluto la bicicletta, ora pedala! O, anche, sei salito in barca, adesso rema! E Lui, certo, non si sottrae. Il fatto è che la novità (dell’amore, della condivisione, del dono di sé) è così grande che, neanche dopo duemila anni, noi ci si riesce a credere davvero e a tirarne tutte le conseguenze.  E così si nicchia, si tergiversa, si preferisce volare basso e rifugiarsi nelle categorie di sempre. Del tipo: religione e potere. Possibilmente a braccetto. Che per Dio è una bestemmia. Lui infatti era sceso a liberarci dal potere, anche quello sacrale della religione. E aveva fatto di questa una marcia di liberazione. Ma, che farci?, l’uomo preferisce camminare sul sicuro, nel deserto perde l’orientamento. La Bibbia, parlando delle tavole su cui erano stati scolpiti i Dieci Comandamenti, dice: “E la scrittura era la scrittura di Dio incisa sulle tavole” (Es 32, 16), in ebraico “Charuth ‘al ha-luchoth”, ma i maestri (quelli veri, ovviamente) insegnano che la parola “charut”, cioè, “incisa”, può leggersi “cherut”, che significa “libertà”. Sono i giochi serissimi che una lingua consonantica come l’ebraico permette di fare. Questo vuol dire che la libertà è il principio dei Dieci Comandamenti, e anche il presupposto imprescindibile per l’adempimento della Legge. Almeno di quella divina. Liberi per amare. Se no, anche i dieci comandamenti sono da buttare a mare.  Questo vuol dire Gesù quando ci mette in guardia dal lievito dei farisei e degli erodiani. E dal loro abbraccio mortale. Che soffoca ogni capacità di intendere Gesù e perciò anche di farci suo Corpo, Pane con Lui, nella storia del mondo.

 

Oggi è memoria di Janani Jakaliya Luwum, pastore e martire in Uganda, e dello starec Isidoro, asceta ed eremita.

 

16_JANANI_LUWUM.JPGJanani Jakaliya Luwum era nato nel 1922 a Mucwini, in Uganda. Da ragazzo era stato pastore del gregge di suo padre, un contadino di recente convertito al cristianesimo. Solo all’età di dieci anni aveva potuto cominciare a frequentare la scuola e lo fece con impegno e profitto, fino a conseguire il diploma di insegnante. Il 6 gennaio 1948, Janani ricevette il battesimo. L’esigenza che sentiva sempre più pressante di evangelizzare, lo portò, dapprima, ad essere catechista e, poi, a decidere di mettersi a tempo pieno al servizio della Chiesa. Ordinato sacerdote nel 1956, alternò soggiorni di studio in Inghilterra al lavoro pastorale e all’insegnamento nell’ Istituto teologico di Bulawasi, finché il 25 gennaio 1956 fu consacrato vescovo dell’Uganda settentrionale. Alla cerimonia erano presenti il presidente della repubblica, Milton Obote, e l’allora Capo di stato maggiore dell’esercito, Idi Amin. Nel 1974, Janani Luwum fu eletto Arcivescovo di Uganda, Rwanda, Burundi and Boga-Zaire. Nel frattempo, nel 1971 il Colonnello Idi Amin aveva rovesciato con un cruento colpo di stato il governo in carica e aveva instaurato una crudele dittatura militare. Migliaia di persone erano state arrestate, imprigionate senza alcun processo e giustiziate. L’arcivescovo Luwum non se ne stette zitto, né allora, né negli anni successivi.  L’8 febbraio 1977, lui e quasi tutti i vescovi ugandesi si riunirono e stilarono una dura nota di protesta, in cui si denunciavano gli atti di violenza compiuti dai servizi di sicurezza del regime e si chiedeva un incontro urgente con il dittatore. Il 16 febbraio, gli ecclesiastici furono convocati nella capitale Kampala. Dopo un confronto farsa, che si risolse in una sorta di processo per tradimento ai vescovi presenti, ad uno ad uno,  fu ordinato loro di andarsente. Fu trattenuto solo Luwum, che volgendosi al vescovo Festo Kivengere, disse: “Mi uccideranno, ma non ho paura”. Il giorno dopo fu diffusa la notizia che l’arcivescovo con due ministri del governo, cristiani impegnati, erano morti in un incidente d’auto. In seguito si seppe che lo stesso Amin, infuriato per il rifiuto di Luwum a sottoscrivere una confessione, gli aveva sparato a bruciapelo in volto.  Era il 16 febbraio 1977.

 

16 STAREC ISIDORO.jpgIoann (tale il nome alla nascita) era nato,  nel 1824 (o, secondo un’altra versione, nel 1833), nel villaggio di Lyskovo, nel distretto di Makar’evo, nel governatorato di Nižegorod (Russia), nella famiglia di Andrey e Paraskeva Kozin, servi della gleba addetti ai servizi domestici alle dipendenze dei principi Gruzinskij.  Quando era incinta di lui, la madre si era recata a Sarov, dallo starec Serafim e il santo l’aveva chiamata a sé e le si era prostrato davanti, predicendole che sarebbe nato da lei un grande asceta. Poco o nulla si sa degli anni giovanili di Ioann, salvo il fatto che, assieme ai divertimenti propri dell’età, egli dava spazio a momenti di preghiera e di meditazione. Nel 1852, avendo ormai chiara dentro di sé la vocazione allo stato monastico, chiese e ottenne di entrare nell’eremo del Getsemani, eretto dal metropolita di Mosca, Filarete.  Nel 1860  Ioann fu ordinato monaco e prese il nome di Isidoro. Si trasferì allora nell’eremo del Paraclito, destinato agli amanti della solitudine più austera, dove ricevette l’ordinazione a ieromonaco. Lì restò cinque anni, fino a quando, cioè, gli si offrì la possibilità di recarsi nella repubblica monastica del Monte Athos, dove però potè trattenersi solo un anno. Tornato in patria, dopo un breve periodo al Paraclito, fece ritorno all’antico eremiterio, dove visse senza interruzioni, fino alla morte avvenuta alle undici di sera del 16 febbraio (3 febbraio per il calendario giuliano) del 1908. Pavel Florenskij, che fu suo figlio spirituale, nella biografia che gli dedicò, scrisse di lui: “Povertà, salute precaria, sprezzante trascuratezza, ingiurie, persecuzioni: ecco di quali spine si era ricoperto il sentiero della vita dello starec. E tuttavia, pur tra queste spine, egli era riuscito a serbare una tale serenità, una tale gioia, una tale pienezza di vita, quale noi non abbiamo né siamo in grado di conseguire  nemmeno nelle condizioni in assoluto più favorevoli”. 

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Lettera di Giacomo, cap. 1,12-18; Salmo 94; Vangelo di Marco, cap. 8,14-21.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali dell’Africa nera.

 

A Pavel Florenkij, poliedrica figura di scienziato, filosofo e teologo ortodosso, morto martire in un campo di concentramento stalinista, si deve, come abbiamo detto più sopra, una biografia dello starec Isidoro, uscita in Italia con il titolo “Il sale della terra” (Qiqajon). In essa Florensij mette in luce “la generosità d’animo di questo monaco pronto a donare al prossimo quel poco che possiede, incapace di riservare qualche cosa per sé”; che “credeva ciecamente a chi lo ingannava, a chi fingeva di chiedergli conforto spirituale per derubarlo, privarlo delle inezie che gli appartenevano” (Nina Kauchtschischwili). Dava e si dava a tutti, come vediamo anche in questo brano del libro che, congedandoci, vi proponiamo come nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Il batjuška abba Isidoro si mostrava benevolo verso ogni cosa e persino verso le creature prive del ben dell’intelletto. Si prendeva cura non solo degli esseri fatti a immagine di Dio, ma aveva pietà anche delle bestie prive della favella; si preoccupava di tutte le creature che respirano la stessa aria dell’uomo. Presso di sé ricoverava e sfamava bestie e uccelli; persino creature repellenti trovavano presso di lui ospitalità: ranocchie, topi e ratti. E se l’anziano abba era per caso ammalato, nemmeno allora si dimenticava dei suoi fratelli minori: faceva in modo che altri dessero da mangiare alla sua famiglia. Persino quand’era ormai prossimo alla morte si informava, presso una famiglia di sua conoscenza, della salute del suo gatto. “Ebbene – chiedeva – il gatto si è ripreso?”. “Si è ripreso”. “Bene, grazie a Dio, grazie a Dio”. Capitava, ad esempio, che un gatto avesse addentato un uccello e questo giacesse in strada. Padre Isidoro immancabilmente allora si chinava a fatica per raccattare la bestiola ferita. Ecco, qualsiasi passerottino con l’ala spezzata trovava ricovero nella cella dello starec fino a completa guarigione. Un bel giorno gli chiedono: “Batjuška, non vi danno fastidio i topi?”. “No, macché, non mi danno fastidio. Io gli do da mangiare a pranzo e a cena e loro se ne stanno pacifici. Prima capitava che andassero in giro raschiando per la cella. Ora gli metto qualcosa da mangiare vicino alla loro tana e non corrono più di qua e di là. No, macché, non mi danno fastidio”. “Ora ho un ospite, non vivo da solo”, disse una volta lo starec al vescovo. Il vescovo lo guardò con un’occhiata interrogativa. “Una ranocchia, a dire il vero, è giunta all’eremo”, spiega padre Isidoro con un sorriso di gioia. “Ma in genere le ranocchie scappano via”, ribatte il vescovo. “Sì, è scappata via, ma poi è tornata. Ora le canterò qualcosa, le parlerò un po’: ecco che non scappa più”. E in effetti su una delle pietre della “Tebaide” se ne stava una grossa ranocchia. E l’abba, chinatosi basso con la barba canuta sopra questa creatura priva di favella e guardando con i suoi occhi limpidi diritto negli occhi della ranocchia, le cantava con voce senile i salmi del mite re David. (Pavel A. Florenskij, Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Febbraio 2010ultima modifica: 2010-02-16T23:05:00+01:00da fraternidade
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