Giorno per giorno – 27 gennaio 2010

Carissimi,

“Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò” (Mc 4, 3-5). Queste parabole di ambientazione bucolica fanno la gioia della nostra dona Dominga, a cui piace questo identificarsi di Dio e della sua azione con la gente e il lavoro dei campi. Che è ancora oggi , quando se lo può concedere, il lavoro di dona Dominga. Dunque, Dio, o forse più propriamente, il suo Spirito, esce a seminare. E cosa può seminare se non la sua propria Parola, cioè il Figlio? Ma come può accadere che il Figlio (che è poi il Regno, cioè, la manifestazione della regalità del Padre) non si proponga all’umanità con successo? La parabola intende rispondere a questo interrogativo, che riguarda ciò che Gesù comincia a sperimentare in questo suo aprirsi alla missione. Che strano, dev’essersi detto, com’è che non tutti, anzi piuttosto pochi, si appassionano e si lasciano conquistare da Dio? Già, dipende da noi, dal terreno che noi siamo: di volta in volta, il bordo di una strada, terreno pietroso o pieno di rovi, o, infine, terra buona, fertile, nera, di quella che il seme, appena vi penetra, subito esplode in nuova vita. Il Vangelo di oggi ci presenta dunque questa parabola di Gesù e Marco ce ne offre subito dopo la spiegazione maturata nella sua comunità (Mc 4, 14-20). Forse, ciò che importa ricordare oggi è il fatto che noi siamo responsabili della maggiore o minore fecondità della Parola del Regno, cioè del suo accadere nella nostra storia. Noi, ce lo siamo detti altre volte, siamo fatti responsabili di Dio, della sua sopravvivenza, del suo impiantarsi e crescere, nei nostri ambienti, famiglie, case, posti di lavoro, chiese. Per garantire la quale, noi, almeno noi, dobbiamo darci da fare per rimuovere ostacoli e impedimenti, tutto ciò che, prima di tutto in noi stessi, nei nostri atteggiamenti, possa far ombra, oscurare, rendere ambigua, non credibile la Parola che, seminata in noi, a nostra volta, seminiamo, cioè proclamiamo, intorno a noi.

 

Il calendario ci porta oggi la memoria di Angela Merici, fondatrice della Compagnia di sant’Orsola.

 

27 ANGELA MERICI.JPGAngela Merici nacque il 21 marzo 1474 a Desenzano sul Garda (Brescia). Ancora giovane, desiderando seguire più radicalmente il cammino del Vangelo, si fece terziaria francescana, vivendo per il resto, negli anni successivi, come gran parte delle donne di modesta condizione del suo tempo, del suo lavoro di cucito, di filatura e di servizi domestici. Trasferitasi a Brescia, acquisì via via una profonda influenza spirituale sulle molte persone con cui veniva in contatto. Decisa a riproporre in maniera originale l’esperienze delle primitive comunità cristiane, attenta però alle sfide della sua epoca, nel 1533, a quasi 60 anni, presso la chiesa di Sant’Afra, costituì la “Compagnia delle dimesse di Sant’Orsola”, con la finalità di offrire alle ragazze del suo tempo quell’istruzione a cui spesso solo difficilmente avevano accesso, assieme alla proposta di un approfondimento delle esigenze implicate nella scelta cristiana. Lasciò scritto alle sue discepole: “Vi supplico di voler ricordare e tenere scolpite nella mente e nel cuore, tutte le vostre figliole ad una ad una; e non solo i loro nomi, ma ancora la condizione e indole e stato e ogni cosa loro. Il che non vi sarà difficile, se le abbracciate con viva carità… Impegnatevi a tirarle su con amore e con mano soave e dolce, e non imperiosamente e con asprezza, ma in tutto vogliate essere piacevoli. Soprattutto guardatevi dal voler ottenere alcuna cosa per forza; perché Dio ha dato a ognuno il libero arbitrio e non vuole costringere nessuno, ma solamente propone, invita e consiglia…”. Morì il 27 gennaio 1540.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

2° Libro di Samuele, cap.7, 4-17; Salmo 89;  Vangelo di Marco, cap.4, 1-20.

 

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, anche fuori da strutture religiose tradizionali, lavorano per costruire un mondo di fraternità, di giustizia e di pace.

 

27 Giornata della Memoria.jpg“Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia”. Lo scrive Renzo Gattegna, presidente dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane),  riflettendo sul senso del “Giorno della memoria”, istituito dieci anni fa dal Parlamento del vostro Paese. Lo stesso Gattegna annota più avanti nel suo articolo: “Scriveva la filosofa Hannah Arendt, che il male non ha né profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale. La filosofa che forse più in profondità ha studiato le aberrazioni del nazismo, coniando quella ormai famosa espressione, “la banalità del male”, riferita a uno dei principali esecutori della Shoah, dà una definizione di tetra neutralità e ignavia a chi non pensa, a chi non riflette, a chi non ha idee proprie, a chi non dà valore e giudizio alle proprie azioni e alle loro conseguenze. La Arendt collega il “bene” direttamente al pensiero, fonte vitale di comprensione del mondo”. Che il Giorno della Memoria serva anche a curarci da ogni possibile ritorno della banalità del male.

 

E lasciamoci qui, con la testimonianza di una protagonista di quella tragica stagione: Liana Millu. La troviamo in “Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio, lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini,” (Garzanti). Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Venne il funesto 1938, con le leggi razziali; poi la guerra e, con la guerra, uno spartiacque che da solo determina un “prima” e un “poi”: venne Auschwitz. Ricordo che in una scuola un ragazzetto mi chiese: Se potesse tornare indietro, che cosa farebbe pur di non finire laggiù? Gli risposi che non avrei fatto nulla. Lui però insistette: Perché non farebbe niente? Mi mise in imbarazzo, dal momento che era complicato rispondergli. Di fatto, nel 1943, non feci proprio nulla per mimetizzarmi o per nascondermi. Entrare nella Resistenza non era proprio il modo più adatto per sfuggire ai pericoli. Ma non sapevo che cosa fosse Auschwitz, anzi non sapevo nemmeno che esistesse. Tornando alla domanda del ragazzino, mi chiedo: E ora che so? Ora che so, credo che non vorrei mai rinunciare a quella esperienza suprema, esperienza della convivenza con la morte, esperienza delle reazioni che la convivenza con la morte produce in noi stessi e negli altri; esperienza di quello che è e che può diventare l’uomo; esperienza della necessità della fede, di credere in qualcosa. Dicendo “fede”, intendo sia la fede religiosa sia la fede laica sia la fede politica. Come dice il Levitico: “Se è testimone perché ha visto e sentito qualcosa e non lo riferisce, colui porti il peso del suo peccato” (Lv 5,1). Non mi gravo di questo peccato; piuttosto, siccome racconto sempre, ogni volta che mi capita di parlare, la mia testimonianza, insisto sul fatto che dove c’è una forza potente e brutale, tesa senza requie a distruggere l’essere umano – badiamo bene, nell’animo prima ancora che nel corpo -, dove c’è una simile forza, l’unico modo per resistervi rimanendo umani è avere una controforza, è difendersi con l’armatura morale di una fede. (Liana Millu in Chi è come te fra i muti?).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 27 gennaio 2010ultima modifica: 2010-01-27T22:10:00+01:00da fraternidade
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