Giorno per giorno – 06 Febbraio 2009

Carissimi,
“Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata” (Mc 6, 17). La preoccupazione di Marco, che scrisse il suo Vangelo presumibilmente a Roma nel corso degli anni 60, perciò più di trent’anni dopo gli eventi a cui si riferisce (come anche quella degli altri evangelisti che scriveranno dopo di lui), non era di scrivere una cronaca della vita di Gesù e una storia del suo tempo, ma, come dice il nome “Vangelo”, era di comunicare la “Buona Notizia” alla gente della sua Comunità. E, a tale scopo, attingeva liberamente dalle testimonianze, scritte e orali, che tramandavano insegnamenti, vita, passione e morte di “Gesù Cristo, Figlio di Dio”, sistemandole e adattandole in modo da rendere possibile l’incontro vivo tra una comunità concreta e la persona concreta di Gesù. Date e dati storici – per come intendiamo la storia oggi – non riscuotono, dunque, l’interesse dell’evangelista. Ricordavamo questo, stamattina, richiamando il fatto che uno storico come Flavio Giuseppe, che scrive in quella stessa epoca, attribuisce la morte di Giovanni Battista a ragioni squisitamente politiche, senza menzionare nessuna trama di Erodiade che, oltre tutto, non era stata sposa di Filippo, ma di un altro Erode, fratellastro dell’Erode [Antipa] menzionato nel testo di oggi. Storicamente fondata o no, cosa intende insegnarci questa pagina di Vangelo? Valdecí suggerisce che sia Erode che Giovanni rispecchiano due comportamenti che possono essere presenti in ciascuno di noi. È vero, ma cosa rappresenta Giovanni? È quello che addita in Gesù il Messia. E che vuol dire Messia? Per noi cristiani è colui che ci mostra come è Dio e come dobbiamo essere noi. E come è Dio? È amore che si dona, cura del fratello. E noi? Anche noi dovremmo essere così. E Erodiade in tutto questo che parte ci fa? È ciò che, in noi, si sente incomodato da quella Verità, perché desidera altro. Tutto ciò che mette al centro noi stessi, con il nostro egoismo, la nostra ansia di protagonismo, il desiderio di possedere, la nostra invidia, l’odio e il sentimento di vendetta, il disprezzo per gli altri. E spinge l’Erode che è in noi a mettere a tacere, a uccidere il profeta che parla in noi, o anche fuori di noi. E con lui, uccide la verità di Dio in noi. E noi lo facciamo, anche se la tristezza di Erode è anche la nostra. Perché sentiamo che siamo noi a perderci.

Oggi ricordiamo le figure di Paulo Miki e compagni, martiri in Giappone, Ksenija di Pietroburgo, folle per Cristo, Sergio Mendes Arceo, voce dei poveri in America Latina, David Maria Turoldo, poeta e resistente.

06_PAULO_MIKI.jpgPaolo Miki fu il primo giapponese accolto in un Ordine religioso cattolico. Nacque nel 1564 e ricevette il battesimo a cinque anni. Frequentò gli studi in un collegio della Compagnia di Gesù, dove scoprì la sua vocazione religiosa. Entrato in noviziato a 22 anni, proseguì gli studi con successo, diventando un profondo conoscitore di religioni orientali. Percorse il Paese in lungo e in largo, operando numerose conversioni. Il potere politico-militare che in un primo momento aveva dimostrato un atteggiamento tollerante verso i cristiani, improvvisamente mutò registro, dando inizio a violente campagne persecutorie. Paolo Miki, arrestato nel dicembre 1596 a Osaka, trovò in carcere alcuni missionari, tre gesuiti e sei francescani, con 17 laici giapponesi. Insieme a tutti loro, venne crocifisso su un’altura presso Nagasaki.

06 XENIA DI PIETROBURGO.jpgDella vita di Ksenija Grigorievna Petrova abbiamo solo poche notizie. Sappiamo che era nata intorno al 1720 in una nobile famiglia di Pietroburgo e che ancor giovane aveva sposato il colonnello Andrea Fedorovic. A ventisei anni era rimasta vedova, in seguito alla morte improvvisa del marito. Sconvolta da questa perdita, abbandonati i lussi mondani, Ksenija scelse di vivere la vita degli “jurodivyc”, i “folli per Cristo”. Distribuite le sue sostanze ai poveri, rinunciò al proprio nome e volle essere chiamata con quello del marito. Poi, vestita degli abiti di questi, cominciò a vagare per le vie di Pietroburgo, recandosi a pregare nelle campagne circostanti, a contatto con la natura. La sua mitezza, i suoi atteggiamenti bizzarri, la povertà delle sue vesti, se in un primo momento, le procurarono la derisione e il disprezzo della gente, le conquistarono poi la simpatia e la devozione di molti. Ksenija visse questa condizione di “folle per Cristo” per più di 40 anni, fino alla morte, avvenuta presumibilmente nel 1803. La sua memoria fu fissata dalla Chiesa ortodossa russa il 24 gennaio del calendario giuliano, che corrisponde al nostro 6 febbraio.

06 MENDES ARCEO.jpgSergio Mendes Arceo, nato nel 1908 in Messico, da giovane voleva diventare un matematico, ma optò poi per il sacerdozio. Ordinato a Roma nel 1932, dopo aver conseguito il dottorato all’Università Gregoriana, fece ritorno in patria, dove fu per alcuni anni professore e direttore spirituale del seminario, finché fu nominato vescovo di Cuernavaca, nel 1952. Si aprì da allora, lentamente, il suo processo di conversione al mondo dei poveri. Le sue innovazioni coraggiose sollevarono le critiche e l’ostilità aperta degli ambienti più conservatori. Chiamato a Roma, rifiutò di rispondere alle domande del Santo Ufficio, chiedendo e ottenendo di essere ricevuto dal papa. Paolo VI lo accolse freddamente, ma un’ora e mezzo di colloquio bastarono ad aprirgli gli occhi su quell’uomo critico, libero e cercatore della giustizia. Tornato nella sua diocesi, si sentì confermato nell’opzione dei più poveri ed esclusi. Nei conflitti operai, studenteschi e contadini non fu mai neutrale, ma sempre di parte, a fianco delle vittime della violenza strutturale. Così come appoggiò, con l’amicizia critica di cui era capace, le esperienze cubana e nicaraguense. Nel 1983, al compimento dei 75 anni, lasciata la diocesi, si ritirò nel villaggio nahua di Ocotepec, dove continuò a celebrar messa nella sua parrocchia, lavorando dodici ore al giorno. Fino alla morte, che lo colse in questo giorno, nel 1992.

06_DAVID_TUROLDO.JPGGiuseppe Turoldo nacque nel 1916 a Coderno, in Friuli nella famiglia poverissima di Giovanbattista e Anna Di Lenarda. Entrato nell’Ordine dei Servi di Santa Maria, fece il 2 agosto 1935 la sua prima professione religiosa, assumendo il nome di Davide Maria, e, il 19 agosto 1940, fu ordinato sacerdote, svolgendo il suo ministero a Milano nel convento di San Carlo al Corso e come predicatore in duomo, fino al 1953. “Esiliato” per volere della curia romana, potè far ritorno in Italia, con l’avvento di papa Giovanni XXIII, scegliendo di stabilirsi nella millenaria abbazia di S. Egidio nei pressi di Sotto il Monte (Bg), dove restò fino alla morte. Socialmente e politicamente impegnato, fece suo il comando evangelico di “essere nel mondo senza essere del mondo”, traducendolo in “essere nel sistema senza essere del sistema”. Turoldo fu il poeta cristiano che più d’ogni altro nel nostro secolo espresse la passione per il contrasto, lo stare fermamente dentro la Chiesa ma nello stesso tempo starvi criticamente. Con Padre Balducci, Don Milani, Don Dossetti, Don Mazzolari e altri, fu uno degli esponenti più rappresentativi di un rinnovamento del cristianesimo e assieme di un nuovo umanesimo sociale. Morì dopo una lunga malattia il 6 febbraio 1992, il giovedì della quarta settimana del Tempo comune, in cui la liturgia propone ai fedeli il racconto della morte del re David. Il card. Martini, che già in una cerimonia pubblica aveva voluto chiedergli scusa a nome della Chiesa per le persecuzioni subite, officiò le sue esequie.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 13, 1-8; Salmo 27; Vangelo di Marco, cap.6, 14-29.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica che professano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

Anche qui in Brasile, i telegiornali hanno parlato in questi giorni di Eluana Englaro. A noi è già capitato di almeno accennarne in passato. Per uno qualunque dei nostri poveri non si sarebbe mai presentato un “caso” del genere. Da noi non si aspetta diciassette anni di coma a morire. È roba da ricchi. E buon per loro, se desiderano così. Da noi si muore per mancanza di farmaci di base persino in pochi giorni. In Africa è anche peggio, molto peggio. E questo, ci dicono, è causa di precise scelte sul piano economico delle società del Primo Mondo. Quando i nostri muoiono, non c’è neanche da abbandonarsi troppo alla disperazione, come piace fare ad alcuni vostri esponenti politici e a molti movimentisti della vita dell’ultima ora. Non c’è tempo, perché la vita incalza, e la povertà anche, e c’è sempre troppo di cui occuparsi. E poi, qui, ancora, si crede in Dio, e nella morte come incontro con Lui, come riposo in Lui: “descansou”, ha riposato, si dice sempre. Diffidiamo del Dio della tecnica, che alcuni, persino nelle Chiese, vorrebbero onnipotente, al posto di quello vero, a prolungarci di un anno, una settimana, un’ora il soggiorno quaggiù. Chissà un giorno l’ibernazione sarà forse l’ottavo sacramento per gente che non crede più in Dio e nella sua vita senza fine. Ed è tutto, per stasera. Noi vi lasciamo a una poesia di David Maria Turoldo, tratta dalla raccolta “O sensi miei…” (Rizzoli). È una poesia che invita al silenzio. L’unica cosa con cui vorremmo accompagnare, proteggere, il commiato di Eluana. Ed è il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Papa, amore ci ridoni al silenzio. / Dio è silenzio: muriamo / di pietra le porte del tempio / della cella, del cuore. Diremo poi / la sola parola / capace di spegnere l’incendio: dopo, / dopo i lunghi anni di silenzio / di amato, divino, salvatore / silenzio. // Papa, non sappiamo nulla / e ne sapremo ogni giorno di meno. / Nulla della vita, della morte / del tempo; / nulla / della fine e del principio. / Forse gli uomini apprenderanno / ancor più dal silenzio, / da una vita murata in silenzio, / offerta, consunta / dal fuoco nel deserto / dell’abbandono e della “Non-curanza”, / il fiore del deserto tra le aride pietre. // Papa, non dire di quanto un uomo è responsabile / e poi lo espropri della sua coscienza. Non dire / di come Dio è coinvolto: / di fronte a un bimbo deforme, / irrimediabilmente deforme, / legittima è la bestemmia. // Papa, non dire di queste cose troppo alte, / di cosa è il tempo e la storia, / e ogni apocalisse e la profezia. / Soli o insieme lo Spirito ci guidi / a ritrovare il metro delle cose. / Ritorni il contemplativo, / uomo della misura: lui solo! // E dopo anni di benedetto silenzio / ritorni a dirci, lui solo / cosa veramente importa. – Ma dopo! (David Maria Turoldo, Papa, amore ci ridoni al silenzio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Febbraio 2009ultima modifica: 2009-02-06T23:45:00+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo