Giorno per giorno – 21 Ottobre 2008

Carissimi,
“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12, 37). L’entrata in vigore dell’ora legale, domenica scorsa, fa sì che, almeno per alcuni, almeno i primi giorni, costi uno sforzo non indifferente la decisione di uscire di sotto le coperte, affrontare lo shock della doccia, e incamminarsi per la preghiera, con un’ora di anticipo. Se poi, come è successo oggi, la pioggia fitta e lieve, durata tutta notte, si ostina a cullare un risveglio che già di suo chiede di essere ritardato, il risultato non potrà che essere quello di ritrovarsi a ranghi ridotti (ridendo bonariamente della debolezza altrui), dona Dominga, Maria José, Simone e il postino. Considerando che Gerson e Pasqualino sono in trasferta per qualche giorno. Ed è stata dona Dominga che, quando Simone ha terminata la lettura del brano di Vangelo, ha detto: beh, anche oggi il Signore ci ha trovati svegli ad accoglierlo come conviene. E credo che possiamo solo ringraziarlo per la fedeltà che ci dimostra e di cui ci fa dono: noi nel ritrovarci e Lui nell’offrirsi come alimento attraverso la sua Parola. Che è capace di cambiare la nostra vita.

“L’ottavo giorno terrete la santa convocazione e offrirete al Signore sacrifici consumati col fuoco. È giorno di riunione; non fare alcun lavoro servile” (Lv 23, 36). Nasce da questa prescrizione biblica, la festa di Shemini ‘atzereth, ovvero “l’ottavo giorno di radunanza”, in coda ai sette giorni della festa delle Capanne. I Maestri la giustificano così: durante i sette giorni di Sukkoth si è pregato per ottenere la pioggia e un raccolto prospero. Ed ecco che l’ottavo giorno il Signore si rivolge al popolo come un padre ai propri figli, e quasi lo prega: “Per sette giorni vi siete preoccupati del bene della vostra terra, e del bene dei vostri fratelli delle altre nazioni. Ebbene: rimanete ancora un giorno e dedicatelo completamente a me!”.

Oggi, il nostro calendario ecumenico ci porta la memoria dei Martiri ebrei dei pogrom nell’Impero russo.

160911892.jpgNell’ottobre del 1905, in numerosi distretti dell’impero russo, dalla Polonia all’Oceano Pacifico, scoppiano violenti pogrom contro la popolazione ebraica, con il sostegno, la tacita approvazione o, in molti casi, il concorso diretto delle autorità di governo, delle forze dell’esercito e della polizia. Si calcola che negli ultimi dieci giorni del mese vi furono una cinquantina di “grandi” pogrom e circa seicento “piccoli” pogrom. I più sanguinosi si ebbero a Bogopol, Aleksandrovsk, Jusovka, Golta, Mariupol, Tomsk, Olviopol, ma soprattutto a Odessa, dove i morti furono almeno 800, migliaia i feriti, e migliaia le case di ebrei distrutte o saccheggiate. Testimoni oculari dichiararono che “gli autori delle devastazioni, brutalmente e indiscriminatamente, picchiavano, mutilavano e assassinavano ebrei inermi, uomini, donne e bambini. Scagliavano le loro vittimi fuori dalle finestre, violentavano, squarciavano il ventre alle donne gravide, massacravano bambini davanti ai loro genitori”. I pogrom erano spesso pubblicizzati con volantini di questo tenore: “Cari fratelli, nel nome del nostro Salvatore che ha versato il suo sangue per noi e nel nome del nostro amatissimo zar pieno di attenzioni per il suo popolo, gridiamo: “abbasso i Jid!”, addosso a questi aborti infami, a queste sanguisughe avide di sangue! Venite in nostro aiuto, lanciatevi sugli sporchi Jid, siamo già numerosi”. Furono gli ultimo pogrom nella Russia zarista che preferì optare negli anni successivi per la tattica dell’agitazione a freddo. Nel decennio 1906-1916 furono pubblicati 2837 libri ed opuscoli a carattere antisemita e il contributo finanziario dello zar Nicola II (canonizzato dalla Chiesa ortodossa nell’anno 2000) superò i 12 milioni di rubli.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.2, 12-222; Salmo 85; Vangelo di Luca, cap.12, 35-38.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

Il pentimento di Dio, davanti ai nostri fallimenti, ma anche la sua ostinazione nella speranza. Che, nella visione ebraica, sono, paradossalmente, la stessa cosa. È ciò su cui riflette André Neher in questo brano tratto da “L’esilio della parola” (Marietti). Noi ve lo proponiamo, nel congedarci, come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Alcuni termini chiave del linguaggio ebraico illuminano di viva luce questa polarità fondamentale del fallimento e della speranza. La loro ambivalenza, per nulla artificiale, rispetta fino alla lettera lo spirito della dottrina ebraica. Il pentimento di Dio è certamente uno dei concetti che introducono nella Bibbia il tema del fallimento nella sua forma più acuta. L’idea di un pentimento divino appare talmente intollerabile che spesso è rifiutata dalla stessa Bibbia (Nm 23, 19; 1Sam 15, 29). Ma dobbiamo arrenderci all’evidenza. Dio si pente di aver creato l’umanità (Gen 6, 6); si pente di aver condannato gli ebrei (Es 32, 14); si pente di aver eletto Saul (1 Sam 15,11). A quanto pare, nel suo linguaggio antropomorfico, la Bibbia pone intenzionalmente in questo termine di pentimento tutto ciò che suggerisce all’immaginazione umana: il rimpianto, la delusione, la stanchezza, le braccia che cascano davanti al fallimento. Ora, il termine ebraico che esprime questo pentimento è nehamâ, e questo termine designa simultaneamente il pentimento ma anche la consolazione. È l’atteggiamento inverso al precedente, il riprendersi di fronte al fallimento, la volontà, l’energia, le mani che si rituffano nella pasta, la speranza. Così, il fallimento e la speranza non sono due momenti distanziati dell’opera divina; sono inerenti l’uno all’altra, come due poli opposti, e un solo e identico termine esprime la loro simultaneità, così che, nel testo biblico, fallimento e speranza si leggono nella stessa parola, si captano nella stessa cerniera dell’avventura biblica. Questa simultaneità del fallimento e della speranza in Dio, la ritroviamo dalla parte dell’uomo, segnata ugualmente dall’ambivalenza di un solo e identico termine – ‘azab – che significa nel contempo l’atto dell’abbandonare e del raccogliere. Nessun intervallo di stagione tra il lancio della semente e il suo raccolto. I due movimenti sono simultanei. Quando l’uomo biblico dice: Sono abbandonato, dice nello stesso istante e tramite la stessa parola: Sono raccolto. L’abbandono e il raccoglimento reggono insieme in forza non dell’effetto compensatore del tempo che passa e guarisce, ma in forza della dialettica interna della loro infrangibile relazione. (André Neher, L’esilio della parola).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 21 Ottobre 2008ultima modifica: 2008-10-21T23:12:00+02:00da fraternidade
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