Giorno per giorno – 03 Agosto 2008

4063886.jpgCarissimi,
“Disse loro: Voi stessi date loro da mangiare. Gli risposero: Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!” (Mt 14, 17). Gli apostoli, a dire il vero, gli avevano suggerito di mandare la gente a casa: per mangiare si arrangiassero! Come fanno anche adesso: Andate in pace, la messa è finita. Già, ma, fuori, che farà la gente? Se le diciamo tante belle parole sulla salvezza dell’anima, e insieme lodiamo Dio, e arriviamo magari a imboccarla (dicono che stia tornando di moda) con un ostia piccola piccola che dovrebbe ricordare il pane, ma sembra di carta, e quando l’inghiotti è già sparita, se facciamo, dunque, tutto (o, piuttosto, solo, questo), senza dirgli niente sulla salvezza del corpo, a che sarà servito? Gesù non ci sta. Per Lui il bello viene sempre dopo. Se no, non vale. E non è che quella moltiplicazione dei pani è segnale dell’Eucaristia. È, anzi, vero il contrario: è l’Eucaristia che è segnale della moltiplicazione dei pani. E se, il pane, quello vero, o il riso qui da noi, non si moltiplica – e a gratis, come dice il profeta Isaia (Is 55, 1-3), – è perché le nostre Eucaristie sono sacrileghe. O giù di lì. Gesù, “sceso dalla barca, vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati”. Poi non contento li ha fatti mangiare tutti. La barca è la chiesa, no? La chiesa che insegna. Se però ci si limita a restare nella barca, si fa la muffa. Bisogna uscire, scendere (Dio scende sempre), guarire e dar da mangiare. Neanche si fosse l’Esercito della Salvezza, che serve i suoi minestroni agli angoli delle strade. E, come idea, ci siamo, però bisognerà forse inventare altre soluzioni. Dicono che migliaia di africani, sotto la spinta della fame, bivaccano sui litorali libici in attesa di imbarcarsi verso la salvezza. E forse, molti di loro, incontreranno soltanto la morte. Gesù è questo interrogarsi e interrogarci: Cosa possiamo fare, perché nel mondo non ci sia più fame. Il pane. Il pane (o il riso, o cos’altro) è quanto basta. “Dacci oggi – a tutti – il pane”. Materialista di un Dio! Il Regno è la terra dove scorre latte e miele. Il Rio Vermelho di latte e di miele, ve l’immaginate? Neanche Betão arriverebbe con la sua fantasia a immaginare un paradiso così. Dio è più sfrenato di qualsiasi bambino. Per questo Gesù dice che solo i bambini lo capiscono. E chi è come loro. Noi invece il pane, il latte e il miele, li si è dimenticati, e così educhiamo i nostri piccoli a diventare consumatori di cose inutili che scimmiottano il nostro mondo di adulti. E li rendiamo tristi come noi. Sentire compassione, dunque. Fare qualcosa.

I testi che la liturgia di questa XVIII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.55,1-3; Salmo 145; Lettera ai Romani, cap.8, 35.37-39; Vangelo di Matteo, cap.14, 13-21.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

La data di oggi ci porta anche la memoria di Rashi (Shelomò ben Yitzchak), sapiente d’Israele.

Eminente studioso ed esegeta del TaNaK (la Bibbia ebraica) e del Talmud, Shelomó ben Yitzchak nacque a Troyes, in Champagne, il 22 Febbraio 1040, figlio (come dice il nome) di Yitzchak e di Leah. Dopo essersi sposato all’età di diciassette anni, si recò a studiare dapprima a Worms, nella yeshivà di Rabbi Yaakov ben Yakar, e successivamente, alla morte di questi, a Magonza. A venticinque anni fece ritorno nella città natale. Lì s’impiegò in un’azienda vinicola ebraica, ma continuò ad approfondire lo studio delle Scritture ed entrò a far parte del locale tribunale rabbinico, di cui assumerà in seguito la direzione. Nel 1070 aprì una sua yeshivà, dove presto acorsero alunni da ogni parte della Francia. I commentari che venne redigendo lungo gli anni ebbero tra l’altro il pregio di rendere accessibili ai laici la maggior parte dei testi sacri. Fu uomo che seppe sempre coniugare l’amore e la devozione per la Parola, il gusto per il lavoro e le cose semplici della vita, il rigore morale della condotta, l’umiltà nelle relazioni con il prossimo e la misericordia con gli erranti. Circa l’interpretazione fornita nei suoi commenti, Rashi affermava che non gli derivava dai suoi maestri né dalla tradizione ebraica, ma che gli era stata rivelata dal Cielo. L’opera di Rashi fu continuata dai suoi discepoli, attraverso le glosse apportate al commento del Talmud del maestro, contribuendo così a sviluppare sempre nuovi principi e aggiornamenti. Nel 1096 le bande di fanatici organizzate nella Prima Crociata fecero irruzione nella Lorena, massacrando dodicimila ebrei e mettendo a ferro e fuoco numerose comunità. In quell’occasione Rashi compose numerosi salmi penitenziali per piangere quelle morti e distruzioni. Passò i suoi ultimi anni nella città di Worms, collaborando alla ricostruzione della locale Comunità. Lì morì il 29 del mese di Tammuz dell’anno ebraico 4865 (corrispondente al 20 luglio del 1105).

Prendendo spunto dall’interpretazione che Rashì dà al versetto biblico: “Siate santi come io sono santo”, il Rabbino capo della Comunità di Venezia, Rav Roberto Della Rocca, introduce la sua relazione dal titolo: “E Dio creò la diversità”, pubblicata in Ha Keillah, bimensile ebraico torinese, del Giugno 1996. Nel congedarci, ve ne proponiamo l’apertura come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Più volte ricorre nella Bibbia l’imperativo “Siate santi, perchè Santo Sono Io il Signore”. Tra le tante interpretazioni che sono state date a questo monito è significativa quella di Rashì (nel suo Commento a Levitico 19,2), forse il più autorevole dei commentatori della Bibbia. Egli, infatti, interpreta il termine ebraico “Kadosh” , “santo”, nel senso di “distinto”, “differenziato”, “diverso” e vede, dunque, nelle parole di Dio non solo una giustificazione della diversità, ma la diversità come dovere esistenziale. Come a dire “siate diversi dagli altri popoli come Io, il Signore, lo Sono dagli altri dei”. Questa concezione della diversità come precetto divino a cui adempiere mette in discussione, fra l’altro, l’idea che l’uomo si realizzi soltanto nella conformità, assoggettandosi supinamente al codice sociale vigente, rifuggendo sempre ogni singolarità. L’ebraismo è un percorso di individuazione, che esalta la personalità tesa, in un anelito costante, alla totalità. Un allievo chiese al Maestro: “Perchè è detto ‘il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’ (Es 3,6), e non ‘il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe’?”, e il Maestro rispose: “Perchè Isacco e Giacobbe non si appoggiarono sulla ricerca e il servizio di Abramo, ma ricercarono da sé l’unità del Creatore e servirono Dio in modo diverso da Abramo”. Ecco la via dell’individuazione. Trovare se stessi, scoprire l’irriducibilità del valore individuale, equivale a trovare Dio; in termini moderni, l’individuazione e la scoperta della propria dimensione religiosa si trovano in un rapporto di mutuo condizionamento. “Quando Rabbi Baruch di Mesbiz arrivava alle parole del Salmo: ‘…non darò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre fino a che io non abbia trovato una dimora per il Signore…’ (Sal 132,4), egli si fermava e diceva a se stesso: ‘Fino a che trovo me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shechinàh, la Divina Immanenza’”. Il singolo non è riducibile a soli valori collettivi, egli stesso rappresenta un valore assoluto: la specificità dell’anima umana, la singolarità dei suoi attributi costituisce insieme il rischio e il valore dell’individuo. Come tale l’uomo è posto di fronte all’Eterno, non come modello impersonale. Dio vuole dall’uomo l’attuazione della sua singolare irripetibilità, non l’adeguamento acquiescente a uno schema collettivo. (Rav Roberto Della Rocca, E Dio creò la diversità).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Agosto 2008ultima modifica: 2008-08-03T23:39:00+02:00da fraternidade
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