Giorno per giorno – 12 Maggio 2008

Carissimi,
Maria das Dores, Maria dei Dolori, è un nome abbastanza comune qui, soprattutto per le persone di una certa età, perché poi i gusti sono cambiati e ai nuovi nati si è preso il costume di dare non più i nomi suggeriti dalla devozione degli antichi o dai santi cultuati, o magari quelli di ciò che restava della tradizione indigena, ma i cognomi, spesso storpiati, degli uomini famosi, o dei divi e delle stelle dell’ultima novella TV. O qualche cosa che suonasse e suoni comunque esotico, o pezzi di nome assemblati. E cos’altro ancora. Specchi forse di una realtà che si è fatta nebulosa e di destini o auspici sempre più difficili da decifrare. Certo che Maria das Dores è un nome, almeno apparentemente, pesante da portare. A meno che sia la maniera previdente di esorcizzare gli inevitabili mali che si fanno presenti nella storia della nostra gente, affidandoli a Lei, la Madre, che li ha già vissuti tutti nella carne del suo Figlio e può così tenercene lontani. Noi abbiamo incontrato la nostra amica Maria das Dores, stamattina, alla Casa do Migrante. Considerandone la vita in retrospettiva, si è portati a pensare che si sarebbe potuta chiamare più convenientemente Maria das Lutas, Maria delle Lotte. Ma, quando lei è nata, più di settantanni fa, quest’aspetto sovversivo della giovane madre di Gesù non era davvero contemplato. Così fu “das Dores”. Beh, noi stamattina, senza citarlo esplicitamente, si è andati a parlare del Vangelo di oggi, che è quello dei farisei che chiedono a Gesù un segno. Come spesso i religiosi lo chiedono. E Gesù che gli dice: no, a voi no. Perché il segno è gia Lui. E che razza di segno. Solo che bisogna avere occhi e orecchi e cuore. Un segno che attesti che Lui è da Dio? Ma in che Dio voi credete? In quello che “arrivano i nostri”? In quello che “faccio tutto io”? In quello che “sono il più bello, il più forte e vinco sempre?”. In quello che “guardate come tutti mi vengono dietro e ne ho radunati centomila in piazza?”. In quello che “persino i potenti della terra mi fanno l’inchino e mi baciano la mano?”. “Io, l’unico segno che vi posso dare è di darmi da mangiare”. Ogni volta di nuovo. Da mattina a sera. E da sera a mattina. Questo è il Dio di Gesù. Se avete bisogno di miracolini, andate dal Sai Baba di turno. E Das Dores diceva: quando la chiesa ci guadagna qualcosa, qualcosa non va. Del resto anche se Dio ci guadagnasse qualcosa, ci sarebbe piuttosto puzza di zolfo. Lui è abituato ad operare in pura perdita. E la storia della chiesa di Goiás nelle lotte dei sem-terra testimonia questa gratuità. Lavora per favorire la vita dei figli di Dio, non per promuovere i suoi fedeli o incrementarne il numero. E quando si tratta di vita, Dio non si tira mai indietro. Ma, noi, si deve cospirare. Che spesso, dice das Dores, fa rima con pregare. E ricorda sua nipotina Jordana, nata di otto mesi con gli intestini fuori. E tutti dicevano: non vivrà. E das Dores, che ha imparato dalla sua santa a farsi carico del dolore degli altri, si è detta: vivrà. E ha cominciato a pregare. “Pregavo giorno e notte, senza sosta, e a volte neanche sapevo cosa stessi pregando, ma pregavo. E Lui, sentivo, era lì che pregava con me”. E Jordana, che ora ha otto anni, è un gioiello di bambina. Das Dores quando comincia a raccontare mica la si può fermare. Così racconta anche di quando in diocesi era sorto il problema di padre Chiquinho, che si era troppo esposto nei confronti della dittatura e che doveva andare in Italia, ma non sarebbe più tornato. E lei aveva detto: “Non c’è che pregare”. E il vescovo le aveva risposto: “Das Dores, qui non c’entra pregare. Il problema è politico.” O qualcosa del genere. Ma lei era cocciuta e aveva cominciato a pregare e faceva pregare anche gli altri. Sapeva che Lui non regge a lungo a questo tipo di complicità. Sicché padre Chico era andato e tornato tranquillo.
“Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc 1, 2-4). Strano modo di cominciare una lettera, questo, di Giacomo. La prima lettura di oggi. Cui quel mattacchione di Francesco d’Assisi si ispirò per stilare il suo manifesto della perfetta letizia.

E, quanto a prove, il nostro calendario ecumenico ci porta una memoria che mica si scherza: quella di Rabbi Meir e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele.

1426981142.jpgDiscepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo, Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro. Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”. Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera di Giacomo, cap.1,1-11; Salmo 119, Vangelo di Marco, cap. 8,11-13.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Abbiamo appena ricevuto dalla nostra amica Giusi di Milano, assieme ad altri preziosi testi, un libretto di Martin Buber, dal titolo “La passione credente dell’ebreo” (Morcelliana). In occasione della memoria odierna che porta noi cristiani a celebrare la santità di questa coppia di coniugi ebrei, Rabbi Meir e Beruriah, ci pare bello proporvene un brano È, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Che cos’è comune a noi e a voi? Se lo concepiamo in modo pienamente concreto: un libro e un’attesa. Per voi il libro è un atrio, per noi il santuario. Ma in questo spazio possiamo vivere insieme, percepire insieme la Voce che parla in esso. Ciò significa che possiamo lavorare insieme per trarre fuori l’essere-parlato che è racchiuso in questa parola, per il riscatto della parola vivente che è imprigionata. La vostra attesa si apre a un ritorno, la nostra a una venuta inanticipabile. Per voi l’articolarsi dell’accadere mondano è determinato a partire da un centro incondizionato, da quell’anno zero; per noi è una scala distesa in modo unitario, che fluisce senza alcun arresto da un’origine a un compimento. Ma noi possiamo attendere insieme l’Uno che viene, e vi sono momenti in cui ci è permesso di spianare insieme la strada. Prima del Messia noi siamo separati per destino. Allora l’ebreo è, per il cristiano, incomprensibile come l’ostinato che non vuole vedere ciò che è avvenuto, il cristiano è incomprensibile all’ebreo, come il temerario che nel mondo non-redento afferma la sua redenzione compiuta. È questa una separazione sulla quale non può essere gettato un ponte da alcuna forza umana. Ma essa non impedisce il comune cercare con gli occhi un’unità che proviene da Dio, che librandosi oltre tutta la vostra e la nostra capacità di rappresentazione, conferma e rigetta, rigetta e conferma, la Vostra e la Nostra, e sostituisce tutte le verità di fede della terra con la verità dell’Essere del Cielo, che è Una. A voi e a noi, a ciascuno, conviene la propria fede nella verità, ossia: tenere fermo in modo inviolabile il proprio rapporto reale con la verità; e a voi e a noi, a ciascuno, conviene il profondo rispetto credente dinanzi alla fede nella verità dell’altro. Ciò non è quello che si chiama “tolleranza”: non vi è in esso il sopportare l’errore dell’altro, ma il riconoscerne il reale rapporto con la verità. Non appena noi, cristiani ed ebrei, abbiamo a che fare realmente con Dio stesso e non semplicemente con le nostre immagini di Dio, noi, ebrei e cristiani, siamo legati nel presentire che la casa del nostro Padre è fatta diversamente da come intendono i nostri schemi umani. (Martin Buber, La passione credente dell’ebreo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2008ultima modifica: 2008-05-12T23:48:00+02:00da fraternidade
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