Giorno per giorno – 26 Febbraio 2008

Carissimi,
“Ora invece, Signore, noi siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione, ora siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati. Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia” (Dn 3, 37-38). Leggendo stamattina la preghiera del giovane compagno di Daniele, Azaria, ci è venuto naturale pensare alla popolazione del Darfur, dove la guerra, con le sue tragiche statistiche (400.000 morti e 2 milioni e ottocentomila sfollati) compie oggi cinque anni. I peccati che ne sono la causa non sono naturalmente i “loro”, ma di tutti. Anche i nostri, di silenzio e omissione. E, forse, si dovrebbe fare qualcosa.

Oggi il calendario ci porta la memoria di Antonio de Valdivieso, pastore e martire dell’Evangelo del Regno.

2083082011.jpgNato a Villa Hermosa in Spagna, da Antonio de Valdivieso e Catalina Álvarez Calvente, attratto dalla vita religiosa, il giovane Antonio era entrato nel convento domenicano di San Paolo a Burgos, dove aveva studiato, emesso i voti religiosi ed era stato ordinato sacerdote. Inviato in America, passò qualche anno come missionario a Santo Domingo, poi fu inviato in Messico e assegnato alla provincia del Nicaragua, dove si distinse per l’azione in favore della libertà e dignità delle popolazioni indigene. Nominato vescovo di Leon, il 29 febbraio 1544, ricevette la consacrazione dalle mani del profetico Bartolomé de Las Casas, il successivo 8 novembre. Non sarebbe durato molto. Le esortazioni, le pubbliche denunce e le lettere inviate al re Carlo V per invitarlo a por fine agli arbitri e ai maltrattamenti crudeli degli indigeni da parte dei conquistadores, gli attirarono ogni giorno di più l’odio dei connazionali. I più accaniti nemici del vescovo erano i fratelli Hernando e Pedro de Contreras, figli di Rodrigo de Contreras, già governatore del Nicaragua, il cui allontanamento dall’incarico essi addebitavano alle severe denunce di Valdivieso. Raggiunti da un provvedimento di scomunica, i due fratelli, dando ascolto ai suggerimenti di un mestatore, tal Juan Bermejo, ai consigli della loro stessa madre, dona Maria de Peñalosa, nonché di un frate apostata dell’Ordine, Pedro de Castañeda, si recarono, accompagnati da alcuni soldati, alla residenza del vescovo. Trovatolo a colloquio con un frate domenicano e un altro sacerdote, lo accerchiarono e, gettandoglisi addosso, lo pugnalarono a morte. Sopraggiunse la madre, richiamata dal clamore e prese il figlio morente tra le braccia. Antonio ebbe il tempo di recitare il Credo, poi additando il Crocifisso, disse: Affido la mia Chiesa a questo Signore: so che la governerà bene. Aggiunse qualche parola di perdono per i suoi assassini e spirò. Era il 26 febbraio 1550. Gli aggressori saccheggiarono la casa, poi uscirono in piazza gridando: “Libertà” e “Viva il principe Contreras”, dando inizio ad un golpe che durò venti giorni e che finì con la morte dei sediziosi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Daniele, cap.3,25.34-43; Salmo 25; Vangelo di Matteo, cap.18,21-35.

La preghiera del martedì è in comunione con le tradizioni religiose del Continente africano.

Ambrogio è uno degli amici solerti che si preoccupano di tenerci aggiornati su quanto si muove, a differenti livelli, nel vostro Paese. Ieri ci ha fatto avere un editoriale a firma di Ernesto Galli della Loggia, apparso domenica scorsa sul Corriere, dal titolo: “L’identità dei cattolici”. La cui tesi di fondo è che non si sente il bisogno in Italia di rieditare esperienze di un partito cattolico (già rivelatesi per altro in passato di basso, bassissimo, profilo), per tutelare l’identità cristiana del vostro Paese. Anche perché “sono stati in special modo dei non credenti, ovvero dei credenti estranei però ai chiusi e sempre circospetti circuiti iniziatici delle organizzazioni cattoliche, sono stati loro che hanno fatto uscire il grande tema della religione e della fede, nonché del rapporto di entrambe con il mondo contemporaneo, dal chiuso in cui, almeno qui da noi, esso era andato a finire. Sono stati loro, i loro libri, i giornali da loro creati o diretti, le loro iniziative, che hanno riportato con forza all’attenzione dell’opinione pubblica e della cultura laica il grande tema delle radici cristiane, dell’ “identità cristiana”, rinnovandone il senso e la portata, riaccendendone l’interesse”. Noi ovviamente non si ha nessuna competenza per entrare nel merito di simili argomentazioni e l’editorialista, dal canto suo, ha tutti i diritti per tirare l’acqua al suo mulino. Noi, a dire il vero, se diffidiamo da sempre dei partiti sedicenti cattolici, diffidiamo anche di più dei laici che hanno riscoperto il tema delle radici e dell’identità cristiane e ci hanno scritto libri e organizzato dibattiti, ecc. ecc. Gli atei devoti alla Pera, Ferrara, e compari vari, non sono certo vereconde verginelle, quando si inventano ciò che si inventano. Fossero almeno vereconde e arrossissero un po’! Noi, come si diceva un tempo, ci sentiamo un’aliquale puzza di zolfo! E preferiamo restare, ai piani bassi della storia, con il Vangelo. Con il suo annuncio e la sua prassi di liberazione dei poveri. Senza cui, semplicemente, non si dà cristianesimo. O, se si dà, è un’altra cosa: esercizio estenuato dell’intelletto, esperienza estetica, strumento di potere o quanto di meglio (o di peggio) preferite.

Bene, il dono della vita, per la vita dell’altro, che il martirio di Antonio de Valdivieso ci testimonia, ci spinge a proporvi una pagina del teologo Jon Sobrino, tratta dal suo libro “Tracce per una nuova spiritualità” (Borla). Che è per oggi il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È il povero a porre l’uomo in maniera molto efficace davanti all’alternativa di scegliere se stesso o scegliere l’altro, di accettare o no frasi evangeliche semplici come quella che afferma che “è più felice chi dà che non chi riceve”. La liberazione dei poveri radicalizza lo spostamento di centro dell’amore fino alla radicale dimenticanza di se stessi. Tale dimenticanza va coltivata affinché nella prassi stessa non si introduca di nuovo l’ “io” e affinché essa sia guidata dalla liberazione dell’ “altro” povero. Tale dimenticanza è richiesta in modo molto realistico, perché di propria natura la liberazione dei poveri porta con sé minacce e persecuzioni che mettono in pericolo l’io, e comporta la possibilità, per nulla remota, di dover rinunciare assolutamente a se stessi. La morte e il martirio sono realtà di cui il liberatore deve tener conto. Essere coerenti con la prassi della liberazione significa allora che l’uomo può accettare qualcosa che non è molto evidente; accettandolo o rifiutandolo però l’uomo stesso si va costituendo: che per trovare la vita si debba perderla (Mc 8, 35) e che “nessuno ha amore più grande di colui che dà la vita per gli amici” (Gv 15, 13). La liberazione dei poveri pertanto esige amore; ma lo esige con una radicalità che non si può conseguire a partire dalla semplice intenzione amorevole né dalla mera prassi in quanto tale. Quest’ultima lo favorisce; ma realizzarlo, di nuovo, è affare dello spirito. (Jon Sobrino, Tracce per una nuova spiritualità).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Febbraio 2008ultima modifica: 2008-02-26T23:27:00+01:00da fraternidade
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