Giorno per giorno – 05 Dicembre 2016

Carissimi,
“Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati” (Lc 5, 18-20). Stasera, a casa di dona Nady, un po’ scherzando, ma neanche tanto, ci dicevamo che questa dovrebbe essere una delle modalità previste per la celebrazione del sacramento della penitenza, nel caso, come è del resto sempre, di una malattia, del corpo o dell’anima. Trovare dei volonterosi di fede che vanno con il “malato” da Gesù (o, se proprio vogliamo, da un suo ministro), glielo presentano e gli dicono: vedi te l’abbiamo portato, adesso fai tu. E lui: non voglio saper niente, mi basta la vostra fede e, quanto a te, ecco, sei perdonato. Poi, se quello vorrà e gli servirà ad alleviare il peso della coscienza, gli farà pure l’elenco dei peccati, ma sarà già un di più, che nulla aggiunge alla gioia della riconciliazione e della guarigione. Di questa parola del perdono, che non possiamo sentire fisicamente da Lui, possiamo però essere “trasmissori” e interpreti, certo in primo luogo nelle forme canoniche previste dalla Chiesa. E Dio voglia che i ministri siano sempre all’altezza per farle vivere come momento di gioia. Ma anche tutti noi, nella vita di ogni giorno, perché, da allora, ogni figlio dell’uomo ha il potere di dire “Ti sono perdonati i tuoi peccati” e di riammettere nella comunione fraterna quanti si erano – o erano stati – esclusi. Gesù ci vuole tutti ministri del perdono. Che appartiene solo a Dio. E meno male, perché Lui non lo nega a nessuno. E nemmeno noi, se siamo dei suoi, possiamo negarlo. Avvento è, così, qualche volta, il nostro andare da Gesù, prima ancora che Lui venga a noi. Spinti (o attratti) comunque da Lui.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Matthew Lukwiya Gulu, martire della carità in Uganda; dei Martiri ebrei durante la peste nera (1348-1350); e quella di Srî Aurobindo Ghose, mistico indiano.

Matthew Lukwiya Gulu era nato il 24 novembre 1957 a Kitgum, in una famiglia anglicana, profondamente religiosa. Studente particolarmente dotato, risultò primo della sua scuola, alla fine delle elementari; primo del Nord Uganda alla fine delle medie e primo del Paese alla fine delle superiori. Laureatosi in medicina all’Universitá di Makerere, fu chiamato alla direzione del St. Mary’s Hospital di Lacor da Lucille e Piero Conti, fondatori di questa prestigiosa istituzione in campo sanitario. Specializzatosi in Pediatria tropicale a Liverpool e poi, in Sanità pubblica, a Kampala, fu a partire dall’ottobre del 2000, quando scoppiò l’epidemia di ebola, che diede il meglio (anzi tutto) di sé. In ventiquattro ore dalla prima segnalazione, l’ospedale di Lacor, sotto la sua guida, allestì un reparto di isolamento che divenne subito operativo, potendo contare sul generoso coinvolgimento del personale infermieristico, per lo più giovani uomini e donne, nella piena consapevolezza del rischio che questo significava. Molti di essi vi lasciarono infatti la vita, come lo stesso dott. Lukwiya. Il quale, una settimana prima di ammalarsi, così si rivolgeva ai suoi collaboratori: “Possiamo essere stanchi, avviliti per la morte di persone care, possiamo avere paura in quanto persone umane e possiamo considerare, in ogni momento, la possibilità di andarcene. Abbiamo la libertà di scegliere, nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà. Allora riposerebbe il nostro corpo, ma non il nostro spirito. Sapremmo che potevamo offrire un aiuto a chi era disperato e non l’abbiamo fatto. Se io lasciassi in questo momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non avrebbe più senso per me”. Matthew Lukwiya morì il 5 dicembre 2000. Solo un anno prima aveva deciso, seguendo in questo la moglie Margaret, di passare dalla chiesa anglicana ad una chiesa evangelica pentecostale. Chiese tuttavia di essere sepolto nell’ospedale, davanti alla grotta della Madonna di Lourdes, accanto a Lucille Corti, che aveva dato la vita per curare i malati di Aids.

Fu un’epidemia tremenda quella che colpì l’Europa a metà del sec. XIV , provocando qualcosa come venti milioni di morti. Ignorando le reali cause della peste (le pulci dei ratti giunti con i mercantili provenienti dall’Oriente), vi fu chi, usando l’arma della superstizione e del fanatismo, additò i colpevoli nella minoranza ebrea, accusata di avvelenare i pozzi al fine di farla finita con il nemico cristiano. Un’ondata antisemita si scatenò e si diffuse presto in tutta Europa, dapprima in Francia e Spagna, poi in Svizzera e Germania. Inutilmente il papa Clemente VI denunciò le false accuse mosse agli ebrei, condannando con fermezza gli eccidi. Il 5 dicembre 1349 questi culminarono con il massacro, a Norimberga, di 500 ebrei, torturati, sgozzati e arsi vivi.

Nato il 15 Agosto 1872 a Calcutta (India), Aurobindo venne mandato, all’età di sette anni, a studiare in Inghilterra. Tornato in patria nel 1893, presto si coinvolse nella lotta politica contro il potere coloniale, il che gli costò la condanna ad un anno di carcere. Quest’anno di isolamento forzato gli fece capire che la lotta anticoloniale è solo un aspetto di un problema più vasto: la trasformazione della natura umana. Uscito di prigione, ancora perseguitato e spiato dalla polizia britannica, si trasferì a Pondicherry, nell’India francese, dove giunse nel 1910. Qui trascorse il resto della vita nell’ashram che si formò progressivamente intorno a lui, sotto la supervisione di “Mère”, Mirra Alfassa, una francese giunta a Pondicherry nel 1920. I suoi lavori e i suoi scritti – composti per la maggior parte tra il 1914 e il 1920 – comprendono poemi, commedie, saggi filosofici e un’incredibile quantità di lettere, nelle quali Aurobindo cercò di spiegare ai suoi discepoli ciò che faceva nel silenzio della cameretta, in cui restò praticamente confinato per 23 anni, dal 1927 fino alla morte, avvenuta il 5 dicembre 1950. Nel frattempo l’ashram andò sviluppandosi rapidamente, diventando presto un grande centro di spiritualità, la cui influenza si estese presto a tutto l’Occidente. Srî Aurobindo scrisse: “Chi cerca Dio, non si limita a formulare idee, cerca di metterle in pratica. Il suo fine consiste nel raggiungere la vita divina, non nell’elaborare teorie su di essa”. Il principio in grado di condurre a ciò è il dono di se stessi, “in forza del quale si passa da una gioia minore ad una felicità senza confini e consapevole”. “Nessuna salvezza può essere raggiunta al prezzo di sottrarci all’amore di Dio nell’umanità, impedendoci di offrire al mondo quell’aiuto che gli possiamo dare. Se necessario insegniamo ciò: Meglio l’inferno con tutti i nostri fratelli infelici che una salvezza solitaria!”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.35, 1-10; Salmo 85; Vangelo di Luca, cap.5, 17-26.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Oggi noi ricordiamo anche lui, Johannes Chrysostomus Wolfgangus Gottlieb (o Theophilus), o anche soltanto Wolfgang Amadeus (che è “Theophilus” latinizzato) Mozart. Nato a Salisburgo il 27 gennaio 1756 e morto trentaseienne il 5 dicembre 1791. Che deve starsene in cielo ad allietare per quel che può, considerati i tempi, il buon Dio e la corte celeste.

“Ho dedicato la vita intera alla lotta del popolo africano. Mi sono battuto contro il predominio dei bianchi, così come mi sono battuto contro il predominio dei neri. Ho perseguito l’ideale di una società libera e democratica, in cui tutti vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di continuare a vivere. Ma per il quale se necessario, sono disposto a morire”. E il vecchio Madiba – Nelson Rolihlahla Mandela – , di cui oggi facciamo memoria, nell’anniversario della morte, a questo ideale è rimasto fedele fino alla fine. Aveva anche scritto: “Ho sempre saputo che nel fondo di ogni cuore umano albergano pietà e generosità. Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio”. Noi speriamo, che nonostante tanti segni contrari, l’umanità riprenda ad insegnare e a imparare ad amare.

E, per stasera, è tutto. Noi lasciamo la parola a Srî Aurobindo, con una citazione tratta da “Lo Yoga delle opere divine” (Ubaldini). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’amore assoluto, la giustizia assoluta, la giusta ragione assoluta, come vengono applicate attualmente da una umanità disorientata ed imperfetta, divengono troppo spesso principi contradditori. La giustizia esige spesso ciò che l’amore aborrisce. La giusta ragione alla ricerca di norme o regole soddisfacenti, se considera imparzialmente la natura e le relazioni umane come esse sono in realtà, è incapace di ammettere, senza attenuarlo, un regno di giustizia assoluta o un regno di amore assoluto. Infatti, la giustizia assoluta dell’uomo diviene spesso ingiustizia quando viene tradotta in pratica, perché la mente umana, esclusiva e rigida nelle sue costruzioni, usa proporre una immagine o un piano esclusivo, limitato e rigoroso, con pretese di totalità e di assoluto, ma anche nella sua applicazione non tiene conto della verità sottile delle cose né della plasticità della vita. Tutte le nostre regole, nel momento in cui vogliamo tradurle in azioni, oscillano sui flutti del compromesso o deviano a causa della loro rigida struttura e della loro parzialità. L’umanità oscilla fra un orientamento e l’altro; avanza per un cammino tortuoso, attirata da esigenze contradditorie, e, nel complesso, invece di fare ciò che desidera fare, o ciò che considera giusto, oppure ciò che la suprema luce dall’alto esige dallo spirito incarnato, attua, istintivamente, i piani dela Natura, non senza grande spreco e sofferenza. Appare evidente perciò che anche dopo aver raggiunto il culto delle qualità morali assolute ed eretto a principio l’imperativo categorico di una legge ideale, non siamo ancora pervenuti al termine della nostra ricerca, non abbiamo ancora toccata la verità che rende liberi. Nondimeno esiste in tutto ciò certamente qualcosa che aiuta ad elevarci al di là delle limitazioni dell’uomo vitale e fisico in noi, una forza che supera i bisogni e i desideri individuali e collettivi di un’umanità ancora invischiata nel fango della materia in cui sono immerse le sue radici, un’aspirazione che ci aiuta a sviluppare l’essere mentale e morale che esiste in noi. (Sri Aurobindo, Lo yoga delle opere divine).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Dicembre 2016ultima modifica: 2016-12-05T22:43:42+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo