Giorno per giorno – 22 Maggio 2017

Carissimi,
“Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato” (Gv 16, 2-4). Stasera ci dicevamo che, se non si sta attenti, anche nella religione, proprio come in ogni altro ambito dell’esistenza umana, può insinuarsi, diffondersi, fino ad affermarsi, il virus della violenza, espressione di quel peccato del mondo, che concepisce tutto in termini di competizione e di potere, che mi portano a vedere nella benedizione che raggiunge l’altro (ma a volte anche nella sua semplice esistennza) un’insidia alla mia, e in lui, perciò, un pericoloso nemico che impedisce o attenta alla mia supremazia. Da qui la determinazione di combatterlo, indebolirlo, isolarlo o, anche, eliminarlo. Nel caso della religione, si dà come aggravante il fatto che tale decisione sia attribuita a Dio stesso, concepito anch’egli come figura del potere, il sommo potere, che dev’essere obbedito e il cui onore va difeso contro i “suoi” nemici. Il che fa molto comodo, specie quando – ed è quasi sempre – sono altri, e ben più materiali, gli interessi che si intendono tutelare. È chiaro che siamo comunque in presenza di una plateale deformazione della parola della rivelazione, anche più evidente nel riferimento al lascito di Cristo, con la centralità che è data, come significato stesso di Dio, alla figura del dono di sé per la vita dell’altro. Le persecuzioni e le guerre, anche nelle loro varianti religiose, crociate, gihad, confronti sanguinosi tra cattolici e protestanti, ortodossi e cattolici, sunniti e sciiti, induisti e buddhisti, buddhisti e musulmani, come i conflitti interni alle chiese, sono sempre state espressione di una lotta condotta in nome di una idolatria del potere (credendo o facendo credere si trattasse e si tratti di “rendere culto a Dio”) contro l’unico vera buona notizia del Padre che ci vuole tutti fratelli, nel nostro farci dono gli uni agli altri. La nostra fedeltà al messaggio di Gesù, la nostra appartenenza ai suoi, hanno il loro criterio di verità in questo, al di là della pratica religiosa o dell’appartenenza ecclesiastica. Che, è ovvio, hanno la loro importanza, ma solo se rimandano a quest’ordine di scelte.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Rita da Cascia, sposa, madre di famiglia e contemplativa; di Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov (Signore del nome buono), mistico, guaritore e carismatico ebreo del XVIII secolo, fondatore del Chassidismo; e di don Andrea Gallo, prete di strada.

Rita era nata nel 1381, in Umbria, nel villaggio di Roccaporena, da Antonio Lottius e Amata Ferri, una coppia non più giovanissima, che aveva dovuto sudare dodici anni l’arrivo della figlia. Mandata in sposa dai genitori ad un giovane rissoso e violento, tale Paolo di Ferdinando, tanto s’impegnò e fece che, un giorno, ottenne mettesse la testa a posto. Troppo tardi, però, per riuscire a sottrarlo al desiderio di vendetta di antichi rivali che, neanche a dirlo, ne fecero ritrovare il cadavere lungo la strada di casa. E cominciarono le preccupazioni per i figli, Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, perché: Uomini siamo, dobbiamo vendicarlo! E lei cominciò a pregare Dio: piuttosto che farne strumenti di morte, prenditeli con te. E solo una madre sa cosa significa una preghiera così, perché sa cos’è dare la vita. E pensa anche alle altre, di madri. I due figli, vai a sapere come, si ammalarono e morirono entrambi. Lei fu allora a bussare al convento delle agostiniane a Cascia. Le quali, per via della biografia complicata, mica volevano riceverla e la rimandarono a casa. Ma inutilmente, perché Lui la voleva là. Finalmente ammessa in convento, vi rimase, edificando tutte le buone monachelle, fino alla morte, il 22 maggio 1447.

Israel ben Eliezer era nato a Okop, un piccolo viaggio dell’Ucraina, al confine russo-polacco il 18 Elul del 5458 (25 agosto 1698). I suoi genitori, Eliezer e Sara, erano vecchiotti quando lui nacque e morirono che era ancora bambino. La sua educazione fu allora affidata alla comunità. Lui era uguale in tutto agli altri bambini, ma anche un po’ diverso. Gli piaceva appartarsi, vagare per campi e foreste, aprendo il suo cuore a Dio. Divenuto adolescente, lo misero sotto, a lavorare nella scuola locale. Più tardi, cominciò a lavorare nella sinagoga e questo gli permise di studiare e approfondire una gran mole di testi ebraici, compresa la Kabbalah, mantenendo tuttavia sempre la sua immagine di semplicità. Trasferitosi a Brody, una cittadina vicina, trovò lavoro come insegnante. Qui conobbe, Rabbi Efraim di Brody, che seppe intuire chi si nascondeva dietro quelle semplici apparenze e gli offrì in sposa la figlia, Leah Rochel. Dopo il matrimonio, la coppia si trasferì in un villaggio sui Carpazi, dove, Israel, con l’aiuto della moglie, si dedicò ad una vita di preghiera e di studio. Fu solo a trentasei anni che egli si manifestò per il maestro che era, stabilendosi dapprima a Talust e poi a Medzibosh, nell’Ucraina occidentale, dove visse per il resto della vita e dove fondò il movimento chassidico. La sua fama si diffuse rapidamente e molti rabbini e studiosi di valore divennero suoi discepoli. Insegnava l’importanza della preghiera gioiosa, del canto, della danza, dell’amore di Dio e del prossimo e diceva che questi cammini portano a Dio come e quanto lo studio della Torah. Il Baal Shem Tov morì il secondo giorno di Shavuoth, la Pentecoste ebraica, il 7 Sivan del 5520 (22 maggio 1760).

Nato a Genova il 18 luglio 1928, Andrea Gallo si sentì attratto fin da bambno dalla spiritualità dei salesiani di don Bosco e entrò così, nel 1948, nel loro noviziato a Varazze. Nel 1953, dopo gli studi di filosofia a Roma, chiese di andare in missione e fu inviato a São Paulo, in Brasile, dove iniziò gli studi teologici. La situazione politica esistente nel paese, sotto il governo di Getulio Vargas, lo costrinse l’anno seguente a fare ritorno in Italia, dove, al termine degli studi, ad Ivrea, fu ordinato presbitero il 1 luglio 1959. Un anno dopo venne inviato come cappellano alla nave-scuola Garaventa, noto riformatorio per minori, dove cercò di sostituire i metodi unicamente repressivi con una pedagogia basata sulla fiducia e su margini maggiori di libertà. Dopo tre anni fu tuttavia destinato, senza troppe spiegazioni, ad un altro incarico. Nel 1964, decise di lasciare la congregazione salesiana, che sentiva troppo stretta e istituzionalizzata, e chiese di essere incardinato nella diocesi genovese, dove negli anni successivi fu via via spostato a mansioni diverse, finché nel 1970 fu accolto dal parroco di San Benedetto al Porto, don Federico Rebora, e insieme a un piccolo gruppo diede vita alla sua comunità di base, la Comunità di San Benedetto al Porto, con la quale si è impegnato, con coraggio, fantasia e determinazione, sui temi della pace, della Resistenza, della democrazia, dell’impegno politico, e, soprattutto, nell’accompagnamento ad ogni forma di emarginazione. Sempre in prospettiva evangeliza e sui passi di Gesù. Fino alla morte, avvenuta, a Genova, il 22 maggio 2013, all’età di 84 anni.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.16, 11-15; Salmo 149; Vangelo di Giovanni, cap.15,26-16, 4a.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Manchester. Noi lo si è saputo solo poco fa. E come risposta ci viene solo di pregare. Per le vittime, le famiglie delle vittime, gli assassini, in questa guerra senza confini. Vittime, che si aggiungono alle innumerevoli altre, in altri scenari, che cadono sotto i colpi, anche ma non solo, di un terrorismo che si dice islamico, ma che, come concedeva ieri nel summit di Riad, lo stesso Trump, sono per il 95 per cento musulmani.

E, per stasera, è ciò che si aveva da dire. Noi ci si congeda qui, offrendovi un brano di don Andrea Gallo, tratto dal suo libro autobiografico “Così in terra, come in cielo” (Oscar Mondadori). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Michele era impazzito per amore e perché non tollerava le ingiustizie. Doveva in qualche modo attutire il dolore che lo logorava e questa era diventata la sua casa. Un giorno ci chiese di portarlo in ospedale perché non stava bene, sentiva che qualcosa non andava. Gli rifiutarono il ricovero e tornato in Comunità entrò in canonica e si buttò giù dal terrazzo. Atterrò su una macchina: così si salvò. Ma ce lo tolsero perché non disponevamo di personale adeguato. Lo rinchiusero in una Comunità protetta. La terapia che lo sedava era droga legale, eppure lui non era mai stato violento con nessuno, né verso le persone, né verso le cose; anzi nella sua stanza campeggiava una grande bandiera della pace. Là dentro Michele percepiva il senso di abbandono. Ci chiamava mille volte al giorno per sapere come stavamo, credeva che la nostra vita fosse in pericolo, era preoccupato che la mafia ci facesse fuori. Noi lo tranquillizzavamo con parole dolci, lo assecondavamo, davamo a lui e a noi stessi l’illusione , attraverso una cornetta del telefono, di essergli vicino. Poi Michele non ha chiamato più. È tornato in questa chiesa chiuso in una bara e io mi sono sentito inadeguato, una vecchia carcassa. Alla fine, presi da mille cose, non abbiamo dato abbastanza. Avrei dovuto gridare di più, avrei dovuto denunciare che non era quello il modo di prendersi cura di un ragazzo completamente deluso dall’amore. Feci un’omelia rabbiosa, di forte autocritica verso la Comunità, i parenti, i medici. Chiesi a ognuno l’impegno, la sera prima di andare a dormire, di chiedere direttamente alla propria coscienza: “Ho fatto proprio tutto il possibile, oggi?”. Aggiungendo: “Se non sarete generosi, arriverete alla mia età con le mani vuote”. Fu un duro colpo, lo è ogni volta che qualcuno mi scivola via dalle braccia. “Chiunque salva una vita, salva il mondo intero” dice il Talmud, ma io non posso non commuovermi davanti alla scena finale di Schindler’s List, quando Oskar Schindler, dopo aver salvato oltre mille ebrei, piange dicendo: “Avrei potuto salvarne altri. Se soltanto io… Non ho fatto abbastanza… Se avessi venduto questa spilla, una persona in più, una persona in più”. (Don Andrea Gallo, Così in terra, come in cielo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 22 Maggio 2017ultima modifica: 2017-05-22T22:38:15+02:00da fraternidade
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