Giorno per giorno – 30 Giugno 2018

Carissimi,
“Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide la suocera di lui che giaceva a letto con la febbre. Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo. Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati” (Mt 8, 14-16). Dopo aver insegnato, nel Sermone della Montagna (Mt 5-7) in cosa consista il Regno che è venuto ad annunciare, Gesù mostra ora (Mt 8-9) come concretamente opera e a chi si diriga. Cioè, come agisce nella storia Dio e come è chiamato ad agire chi accetta di obbedirgli. Scendendo dal monte, su cui non ha proclamato una nuova Legge e nuovi precetti, ma ha disegnato il volto di un Dio preoccupato della felicità dei suoi figli – malvagi e buoni, giusti e ingiusti (cf Mt 5, 45), e desideroso che tutti si sentano partecipi della stessa preoccupazione verso gli altri, nessuno escluso, ed essere, così, perfetti come il Padre (cf Mt 5, 48) – , come prima cosa aveva reintegrato nella comunità chi ne era stato, dalla Legge, emarginato – è l’episodio della guarigione del lebbroso di cui abbiamo letto ieri. Oggi, continuando nel suo insegnamento pratico, Gesù mostra qual è il suo, e quale dev’essere, perciò, il nostro atteggiamento verso il fratello, che è considerato straniero, pagano e nemico, esemplificato nel centurione che viene a implorarlo per la salute di un suo servo (cf Mt 8, 5 ss). Di lui Gesù tesse l’elogio piú bello: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (v.10). E la fede di quell’uomo non era fatta di teologumeni o di dogmi, di cui non doveva sapere niente, essendo di un’altra religione, ma, forse, solo della certezza, a partire dalla fama che circondava Gesù, che il suo Dio era appunto buono con tutti, non guardava in faccia nessuno, voleva tutti felici, amici e nemici, vicini e lontani. E Gesù opera la salvezza. Dopo di che, il vangelo ci fa ascoltare la guarigione della suocera di Pietro. Apparentemente, un episodio minore, ci si diceva stasera, a casa di dona Nady. Eppure no, risulta infatti decisivo, rivelativo del come deve essere la comunità dei discepoli, domani, la chiesa, guarita dalla febbre di potere, che contagia così spesso ogni spazio di convivenza umana, disposta finalmente solo a servire. Teologia del servizio. Dio che accade nel servizio agli altri. E noi?

Il calendario di oggi ci porta le memorie di Raimondo Lullo, mistico e missionario; di padre Eufemio Hermógenes López Coarchita, martire in Guatemala; del prete italiano Leandro Rossi, avvocato dei poveri; e dei Diciotto Martiri ebrei dell’Inquisizione a Madrid.

Raimondo Lullo (Ramon Llull) era nato da nobile famiglia a Palma di Maiorca nel 1232. Amante della vita gaudente e incorreggibile donnaiolo, entrò in crisi, trentenne, in seguito ad alcune visioni. A farne le spese, prima della conversione e dopo, fu in ogni caso la moglie, Bianca Picany, con i due figli nati dal matrimonio, Domenico e Maddalena, che il nostro lasciò. Desideroso di portare l’Evangelo alle popolazioni musulmane, prese a studiare di gran lena filosofia e teologia, ma anche la lingua araba. In un’epoca difficile, piena di contrapposizioni violente, Lullo comprese, pur nei limiti della cultura del suo tempo, l’importanza del rispetto reciproco e la necessità della conoscenza e dell’approfondimento dell’altrui cultura, facendosi portatore dell’esigenza di privilegiare lo strumento del dialogo. Scrisse oltre duecento opere, di filosofia, teologia, mistica, pedagogia, medicina, scienze naturali, fisica, matematica, letterarie e poetiche. Viaggiò molto, a Roma, nel Medio Oriente (Cipro, Rodi, Siria, Palestina) e nelle regioni dell’Africa settentrionale. Più volte preda di crisi psicologiche e di visioni contrastanti che lo perseguitavano e disorientavano, Lullo restò ancorato ad un’unica certezza, quella dell’amore di Dio. Una leggenda vuole che morì in conseguenza di un linciaggio a Bouge, nel Nordafrica. In realtà morì a Maiorca, il 29 giugno 1315, ultraottuagenario.

Eufemio Hermógenes López Coarchita era nato a Ciudad Vieja, nel Dipartimento di Sacatepéquez (Guatemala), il 16 settembre 1928, terzo degli otto figli di Victoria Coarchita Santa Cruz e di Ángel López Hernández. Entrato in seminario a quindici anni, era stato ordinato prete, il 7 novembre 1954. Negli anni successivi all’ordinazione, oltre al servizio pastorale nelle parrocchie a cui fu destinato, si preoccupò di favorire il sorgere e il diffondersi in diverse località del Movimento Rurale di Azione Cattolica. Il vescovo lo volle anche direttore spirituale nel seminario di Città del Guatemala. Nel 1966 fu inviato come parroco a San José Pinula, dove si fece conoscere per il profondo attaccamento al suo ministero, la sua semplicità, la generosità senza limiti nel condividere quanto aveva e una dedizione instancabile a servizio della sua gente. Nel giugno del 1978, benché raggiunto da ripetute minacce di morte, declinò l’offerta dei parrocchiani che si erano disposti a fargli, a turno, da guardie del corpo, non volendo mettere a repentaglio la vita di nessuno. Il 30 giugno, tornando dalla visita a un ammalato, trovò in aperta campagna i suoi assassini che gli spararono addosso con fucili da caccia, finendolo poi con un colpo di grazia. Nei tempi immediatamente precedenti alla sua morte, aveva denunciato la maniera brutale usata dall’esercito nel reclutamento dei giovani per il servizio militare; si era opposto al progetto di una grande impresa che avrebbe lasciato senz’acqua i piccoli coltivatori della zona; aveva protestato per l’alto costo del latte; aveva denunciato la campagna di sterilizzazione delle donne, finanziata da multinazionali straniere. I nemici, dunque, non gli mancavano. Parteciparono ai suoi funerali almeno quattromila persone, alcune giunte persino da località a 350 chilomentri di distanza. Molti, durante il rito presieduto da diversi vescovi e oltre 50 preti, dovettero restare fuori della chiesa, sotto una pioggia torrenziale. Era l’ultimo saluto al buon pastore che aveva dato la vita per amore di coloro che gli erano stati affidati.

Leandro Rossi era nato a Guardamiglio (Lodi), il il 3 agosto 1933, ed era stato ordinato prete il 15 giugno del 1957. Laureato in Diritto canonico e in Teologia morale, fu docente di quest’ultima disciplina presso il Seminario di Lodi e presso lo Studentato teologico del Pime a Milano, dedicandosi altresì ad approfondirne la problematica in numerosi scritti, pubblicati in quegli anni. Parroco del Tormo e di Cadilana, decise di dedicarsi all’accoglienza e al recupero dei tossicodipendenti. Nel 1997 si trasferì nel Piacentino e venne nominato parroco di San Lorenzo Martire a Gazzola, dove rimase fino al luglio del 2000. Morì il 30 giugno 2003. Il teologo Giannino Piana lo ricorda così: “Le due grandi fasi in cui si divide la vita di don Leandro, pur nella radicale diversità degli impegni, sono tra loro unite da un denominatore comune: la passione per l’uomo, che si è manifestata tanto nell’atteggiamento di grande comprensione con cui ha affrontato, sul piano dottrinale, alcune delicate questioni morali dietro cui si celano situazioni esistenziali problematiche (spesso cariche di grande sofferenza) quanto nel coinvolgimento diretto in un’opera di giustizia (e di carità) volta a riaccendere la speranza in persone umanamente alla deriva. Non è difficile intravedere, dietro a tutto questo, il segno di un’adesione incondizionata alla parola del Vangelo: ‘Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ (Mt 25, 40). La ricchezza di umanità, che si rendeva trasparente soprattutto nel dono dell’amicizia, la schiettezza dei comportamenti (e della parola) – forse la causa principale delle difficoltà incontrate nei rapporti con chi esercitava il potere – il senso profondo del servizio reso sia attraverso la ricerca (e la divulgazione culturale) che attraverso l’azione a favore dei poveri fanno di don Leandro un interprete autorevole di quella ‘civiltà dell’amore’ che è la ‘cifra’ più alta della presenza del regno nella storia degli uomini”.

Nel 1680, nel corso del maggiore autodafé nella storia dell’Inquisizione spagnola, svoltosi a Madrid, 72 persone sono accusate di essere giudaizzanti, discendenti cioè di ebrei, battezzati a forza, due secoli prima, ma che hanno continuato segretamente a praticare la loro religione (che poi era la religione di Gesù). L’Inquisizione condanna al rogo diciotto di loro ed è lo stesso re di Spagna, Carlo II, che, nel giorno dell’esecuzione, il 30 giugno di quello stesso anno, appicca il fuoco alla pira. Gli altri 54 inquisiti sono condannati alla prigione perpetua.

I testi che la liturgia del giorno propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro delle Lamentazioni, cap.2, 2.10-14.18-19; Salmo 73; Vangelo di Matteo, cap.8, 5-17.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di un articolo di don Leandro Rossi, apparso con il titolo “Fare leva sul positivo” in Famiglia oggi, n. 2 febbraio 2000. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quando facevo il chierichetto, accompagnavo il sacerdote per la benedizione delle case. Mi accorsi che non si benedicevano le abitazioni delle coppie irregolari (allora equivalevano alle famiglie dei concubini e dei non sposati religiosamente), che, del resto, non potevano confessarsi né comunicarsi; alcuni venivano anche privati del funerale fatto in chiesa. Mia sorella (che poi avrebbe avuto invece una famiglia “regolare” con sei figli e un marito pazzo) riteneva che l’emarginazione di queste coppie non fosse una cosa giusta. È da anni che cerco di trovare la soluzione del problema. Per essere garbato dirò che non l’ho ancora trovata; per essere meno modesto dirò che siamo in uno dei casi per i quali oggi possiamo batterci il petto e dire il nostro mea culpa. Nel Vangelo di Matteo si legge: “Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore” (Mt 9, 36). E concluse mandando i discepoli in missione dicendo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10, 8). […] La Chiesa, a volte, ingiustamente addebita alle coppie irregolari di “offendere” la famiglia-istituzione. Così le coppie eterosessuali, non sposate e risposate, non dovrebbero rivendicare diritti e agevolazioni che sono attribuiti alle coppie “regolari”, che erano, in passato, tutte le coppie sposate con matrimonio cattolico; ora, invece, ci si accontenta dell’irregolarità (mancanza dell’aspetto giuridico, canonico o civile che sia). Insomma: non si respingono più tutti gli sposati civilmente, perché qui almeno un matrimonio istituzionale c’è. Sarebbe il minor male. La Chiesa, oggi, si sente sola a difendere la famiglia, che è un grande valore. E fa bene. Tuttavia, per il Vangelo, la famiglia non è il supremo valore. Il prossimo, che il buon Samaritano deve soccorrere, non è necessariamente il consanguineo; ma il bisognoso, anche se estraneo alla propria famiglia. Inoltre, quando una donna gridò al Cristo: “Beata chi ti è stata madre!”, Gesù rispose: “Beato piuttosto chi fa la volontà di Dio”. Questo non era un affronto alla Madonna, anzi! Ma la collocazione dei valori al vero posto che occupano. Ci sono i valori del regno di Dio che vengono prima della famiglia. Questa differenza può collocare “padre contro figlio e madre contro figlia”. E ancora: “Chi non odierà (‘amerà di meno’) il padre e la madre, non è degno di me”. La famiglia, dunque, è un grande valore, ma non il massimo valore. (Leandro Rossi, Fare leva sul positivo).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 30 Giugno 2018ultima modifica: 2018-06-30T22:39:38+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo