Giorno per giorno – 19 Febbraio 2018

Carissimi,
“Essi allora risponderanno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito? Allora egli risponderà loro: In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25, 44-45). Si conclude così la parabola del giudizio finale, mostrandoci una volta di più cosa ci sia al centro dell’interesse e delle preoccupazioni del Padre di Gesù: nulla che abbia a che fare con una qualche pratica religiosa, ma il bisogno dell’uomo nella sua concreta esistenza. Bisogno che chiede di essere colmato. Del resto, come ricordavamo stasera, già nel primo dei cinque discorsi in cui Matteo raccoglie gli insegnamenti di Gesù, il Discorso del monte, era emerso con chiarezza, in quello che costituisce il suo preambolo (cf Mt 5, 3ss), la centralità del povero, nelle sue diverse varianti, che siamo chiamati a testimoniare per dire la nostra fede nel progetto del Regno. Fede che implica perciò da subito il superamento di ogni barriera religiosa, di ogni contenuto dogmatico, di ogni pratica sacramentale che ci distolgano dall’essenziale verità dell’annuncio che ci ha raggiunti, per ritrovarci nei semplici gesti in cui si dice la prossimità, l’accoglienza, l’empatia, l’amore per il prossimo che mi trovo accanto, resi fratelli e sorelle di una umanità che non conosca piú divisioni. Su questo siamo e saremo ogni giorno giudicati. Il resto costituisce solo la rappresentazione, nell’ineliminabile linguaggio dei simboli, di ciò che abbiamo deciso ci sostenga nel cammino che abbiamo intrapreso assieme nel nostro farci chiesa.

Oggi ricordiamo Sirio Politi, preteoperaio; José Antônio Pereira Ibiapina, apostolo del Nordeste brasiliano, e Rabbi Elimelech di Lisensk, mistico ebreo.

Sirio Politi era nato il 1º febbraio 1920 a Capezzano Pianore, in quel di Lucca, da una famiglia povera e a quattordici anni era entrato in seminario. Ordinato prete nel 1943, divenne due anni più tardi parroco di Bargecchia. E ci restò una decina d’anni, finché lo Spirito gli deve aver sussurrato: ehi, amico, datti una mossa! E lui, era il 1956, scese a valle, con una idea: “essere uno di loro”. Loro erano gli operai. I tempi, poi, mica si scherzava. Per il divorzio maturato nel tempo tra la chiesa e la classe operaia e il clima di sospetto e le reciproche diffidenze che ne erano scaturite. Lui comunque sarebbe riuscito ad abbattere il muro e, condividendone la fatica e le lotte, a conquistare l’amicizia, la lealtà e la fedeltà dei nuovi compagni. Durò solo tre anni, per via della durezza di testa e di cuore che Gesù da sempre rimprovera alla sua chiesa. Per restare prete, dovette lasciare la fabbrica. Di quel momento scriverà: “Mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio Lei”. Continuò invece a vivere, dove aveva preso ad abitare, alla Darsena di Viareggio, non più operaio, ma scaricatore di porto, per i successivi sei anni. Dal 1965 creò con altri preti operai, uomini e donne, una nuova esperienza comunitaria alla periferia della città, tornando in Darsena nei primi anni settanta. Lì si impegnerà sempre più sul fronte della pace, della nonviolenza, della lotta antinucleare. Dall’estate 1986, l’ultima sfida, quella della malattia che lo porterà alla morte, il 19 febbraio 1988.

José Antônio Pereira Ibiapina nacque il 5 agosto 1806 a Sobral, nello Stato di Ceará. Ancora giovane, desiderando diventare prete, si era trasferito a Olinda (Pernambuco), per frequentare il seminario, ma una serie di tragedie familiari (la morte della madre, l’omicidio del fratello maggiore e la fucilazione del padre per motivi politici) lo costrinsero a fare ritorno a casa per prendersi cura della famiglia. Risolti i problemi più urgenti, fece ritorno nel Pernambuco con due delle sorelle minori. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi nel 1832. Negli anni successivi fu prima magistrato, poi deputato e infine avvocato. Ed ebbe sempre a cuore la causa dei più poveri e sfruttati. Nel 1850, la svolta decisiva della sua vita: si disfece di tutti i suoi beni e andò ad abitare in una casetta in un bairro di Recife, dove passò tre anni a studiare, pregare, meditare, vivendo in povertà. Il 26 luglio 1853, Ibiapina veniva ordinato sacerdote. Insegnò per qualche tempo in seminario, poi con il permesso del suo vescovo, cominciò a viaggiare attraverso tutto il Nordeste brasiliano, realizzando missioni popolari, coscientizzando e organizzando la popolazione, costruendo chiese, ospedali, bacini idrici, e soprattutto moltissime case di carità, dove l’infanzia abbandonata potesse crescere, studiare e apprendere una professione. Padre Ibiapina morì a Santa Fé, nello stato di Paraiba, il 19 febbraio 1883.

Rabbi Elimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità. Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech, alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Levitico, cap.19, 1-2. 11-18; Salmo 19B; Vangelo di Matteo, cap. 25, 31-46.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le religioni del subcontinente indiano: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Sirio Politi, tratto dal suo libro “Uno di loro. Pensieri e esperienze di un prete-operaio” (Gribaudi). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Li guardo quei volti così duri a volte, tesi nello sforzo della fatica e mi riesce difficile immaginarli sorridere. Li incontro giù nei doppifondi, alla luce di lampade — e fuori è il sole accecante di agosto là sulla spiaggia, sulla distesa lucente del mare — in penombre di buio e di fumo, a lampi accecanti come di una tempesta, nel friggere della saldatura elettrica e pare pioggia che scroscia, rinfagottati come straccioni e è un caldo terribile, soffocante, e cerco in loro l’anima. La somiglianza di Dio. I figli di Dio. Non so quanto li amo. Li amo così come sono, con una tenerezza materna. E li porto tutti nell’anima mia. E non solo questi fra cui lavoro, ma tutti, tutti, come se fossero qui a battere il martello insieme a me, a consumare le ore, logorare la vita su lamiera di ferro, perché ne nasca una nave e ne vengano fuori tanti milioni per il padrone del cantiere e per quelli che saranno i padroni della nave. Tutti gli operai incatenati dal salario. Tutti i figli di Dio disfatti da un lavoro troppo materiale. Tutti i redenti da Gesù schiacciati dallo sfruttamento del bisogno del pane quotidiano. Come posso pensare che anche un solo colpo di martello vada perduto? Che anche una sola goccia di sudore cada, succhiato inutilmente dalla terra? Che il morire di queste anime, oppresse dal peso della materia, sia senza redenzione? Se io arrivassi a pensar questo, se qualcuno me ne convincesse, credo che ne morirei di dolore. Non saprei più cosa farmene del mondo, della vita. E getterei via tutto, anche Dio. Perché non saprei che farmene di Dio se non sentissi e vedessi l’Amore scendere dentro a dare senso e valore ad un vivere che è un morire ad ogni istante. Specialmente in questa gran parte di umanità fatta di povertà, di sofferenza, di sacrificio di sé, di un morire per vivere e far vivere i propri figli. È questo Amore che ha fatto nascere in una stalla, vivere di lavoro, campare senza possedere un sasso dove posare il capo e morire in Croce, il Figlio di Dio. Ogni mattina con la mia Messa nascondo in questa realtà di sacrificio dell’umanità che lavora, il Mistero di quest’Amore fatto carne e sangue di Dio attraverso Gesù Cristo e poi vado in cantiere perché vi rimanga viva e presente la continuità di questa incarnazione di Dio attraverso la mia carne e il mio sangue di sacerdote. (Sirio Politi, Uno di loro. Pensieri e esperienze di un prete-operaio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Febbraio 2018ultima modifica: 2018-02-19T22:30:18+01:00da fraternidade
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