Giorno per giorno – 12 Maggio 2017

Carissimi,
“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 1-3). Stasera, ci si chiedeva che senso possa avere ancora, per noi, oggi, questa parola. Al di là di quello che, sulla bocca di Gesù, nell’imminenza della sua dipartita, possa aver significato per i suoi compagni, o, in seguito, per la comunità di Giovanni, che ne aspettava il ritorno. È una parola per il tempo della sua assenza. Quando sembra che tutto vada a rotoli, che Dio se ne sia andato, e le relazioni umane siano, una volta di più, marcate da ciò che è il contrario di Dio: l’egoismo, il sospetto, l’indifferenza, l’inimicizia, la violenza, l’esclusione, la morte. Gesù ci chiede di non smettere di avere fede. In Dio e in lui, che ne è la manifestazione storica. E avere fede significa assumerne il progetto. Anche quando i venti soffiano contrari. Come anche oggi. Nella casa del Padre, il tempio che è Gesù, o, forse meglio, lo Spirito di Gesù, o anche lo stesso amore del Padre, che lui ci manifesta, ci sono molti posti, molte possibilità concrete di sperimentare e testimoniare il nostro dimorare nell’amore. Egli ne prepara uno per ciascuno di noi e lentamente, con pazienza, fraterna ostinazione, ce ne insegna via via il cammino, che è lui stesso, fino a farci abitare in esso stabilmente. È solo dirgli ad ogni momento di sì.

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta le memorie di Rabbi Meir e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele; e di Irena Sendler, “giusta tra le nazioni”.

Discepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo, Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro. Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”. Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore, verso il 175 d.C. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

Irena Krzyzanowski era nata a Otwock, una cittadina a circa venti chilometri da Varsavia (Polonia), il 15 febbraio 1910 da Janina e Stanislaw Krzyzanowski, un medico, che fu tra i primi membri del Partito socialista polacco, e uno dei pochi medici cattolici che, a quel tempo, accettarono di prestare assistenza alle famiglie povere della locale comunità ebraica. Morirà nel febbraio 1917, di tifo, contratto mentre assisteva i pazienti, che i suoi colleghi avevano rifiutato di curare. Fu per l’educazione ricevuta dai genitori che, già da bambina, Irena frequentò ed ebbe modo di conoscere e di simpatizzare con i suoi piccoli compatrioti ebrei. Terminati gli studi, sposò Mieczyslaw Sendler (con il cui cognome sarebbe stata conosciuta in seguito, nonostante il fallimento del matrimonio, subito dopo la guerra). All’epoca dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939, Irena lavorava come infermiera per i servizi sociali del comune di Varsavia. Quando si scatenò la perscuzione nei confronti degli ebrei, decise da subito che non poteva restare indifferente e che doveva darsi da fare. Nei mesi che seguirono, lei ed altri volontari fabbricarono migliaia di documenti falsi per aiutare le famiglie ebree a nascondersi. Nel dicembre del 1942, il movimento clandestino Żegota (Consiglio per l’aiuto agli ebrei), da poco creato, la nominò, con il nome di battaglia di Jolanta, a dirigere la sezione che si occupava del salvataggio dei bambini. Come impiegata dei servizi sociali di Varsavia aveva diritto di accesso al ghetto della città. Fu così che si ingegnò in mille modi per nascondere e portar fuori dal ghetto quanti più bambini possibile, affidandoli poi, con documenti falsi, presso famiglie fidate nelle campagne circostanti, o presso conventi e istituti religiosi. Di ognuno di essi annotò accuratamente in codice i veri nomi accanto a quelli falsi, collocando poi le liste in contenitori di vetro, che nascose sotto terra. Sperava in tal modo di potere riunire i bambini, un giorno, ai genitori o, almeno, a qualche membro delle loro famiglie. Il 20 ottobre del 1943 Jolanta fu scoperta e arrestata dalla Gestapo. Condotta nella famigerata prigione di Pawiak, fu ripetutamente torturata. Le spezzarono i piedi e le gambe, ma non tradì l’organizzazione, né rivelò gli indirizzi dei bambini nascosti. Condannata a morte, fu salvata all’ultimo minuto, quando membri della Żegota riuscirono a corrompere le guardie che l’avevano in custodia e sottrarla così all’esecuzione. Dopo la guerra visse un’esistenza normale, tornò al suo vecchio lavoro, si sposò nuovamente, ebbe tre figli, restando in ogni caso in contatto con alcuni dei bambini che aveva salvato. Nel 1965 ricevette il titolo di Giusta tra le nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme. In una lettera al Senato del suo Paese, che, più tardi, le attribuì un premio, scrisse: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto e con l’aiuto di tutti i meravigliosi messaggeri che oggi non ci sono più, è ciò che giustifica la mia esistenza sulla terra più di ogni possibile onorificenza”. In un’altra occasione ebbe a dichiarare: “Avrei potuto fare di più. Questo rammarico mi seguirà fin o alla morte”. Aveva salvato solo 2500 bambini. Era stata torturata e aveva rischiato solo la morte. Irena Sandler è morta a Varsavia il 12 maggio 2008.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.13, 26-33; Salmo 2; Vangelo di Giovanni, cap.14, 1-6.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

È tutto, per stasera. E, prendendo in qualche modo spunto dalla memoria di Rabbi Meir e Beruriah, nonché dalle preoccupazioni che viviamo in quest giorni, vi proponiamo un aneddoto di ambiente ebraico tratti da “I racconti dei Chassidim” (Garzanti) di Martin Buber. Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Una volta, dopo la preghiera di Minhà, un indiscreto importunò Rabbi Hajim con una richiesta. Poiché insisteva, lo zaddik si adirò con lui. A un amico che era presente alla scena e gli chiese ragione della sua collera, rispose che chi recita Minhà sta di fronte al modno della separazione originaria: come povea non adirarsi, quando, venendo egli da quello, la piccola gente lo assaliva con le sue piccole preoccupazioni? Allora l’altro disse: “Dopo il racconto he la Scrittura fa della prima manifestazione di Dio sul Sinai, si legge: ‘E Mosè discese dal monte verso il popolo’. Eashi osserva a tale proposito: ‘Questo ci insegna che Mosè, scendendo dal monte, non si rivolse alle proprie faccende, ma al popolo’. Come si deve intendere? Quali faccende aveva nel deserto il nostro maestro Mosé, la pace su di lui, a cui rinunziò per andare verso il popolo? Si deve intendere così: quando Mosè discese dal monte, era ancora unito ai mondi superiori e compiva in essi la sua alta opera di compenetrare la sfera del giudizio con l’element della misericordia. Queste erano le faccende di Mosè. Eppure lasciò la sua alta opera, si sciolse dai mondi superiori e si rivolse al popolo; egli ascoltò tutte le loro piccole preoccupazioni, accumulò dentro di sé tutte le pene dei cuori di tutto Israele e le sollevò poi nella preghiera”. Quando Rabbi Hajim udì questo il suo animo si acquietò, fece richiamare l’uomo che aveva sgridato, per accogliere le sue richieste, e per quasi tutta la notte accolse le lamentele e le preghiere dei chassidim radunati. (Martin Buber, I racconti dei Chassidim).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2017ultima modifica: 2017-05-12T22:20:57+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo