Giorno per giorno – 03 Aprile 2017

Carissimi,
“Gli scribi e i farisei conducono a Gesù una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo” (Gv 8, 3-6). Stasera, ci dicevamo con un pizzico di ironia, che quel gruppetto di scribi e farisei erano un po’ gli antesignani dei quattro cardinali con i loro “dubia”, della chiesa d’oggi. Gente preoccupata della deriva pastoralista (con i pericoli di lassismo morale) di Gesù rispetto alla “sana dottrina”, ancorata alla “parola di Dio” e alla tradizione formatasi nel tempo, che sembrava (e sembra) però aver dimenticato il significato profondo dell’evento fondatore, che precede ogni legge. Che la pratica innovativa di Gesù su un argomento cruciale come quello dell’adulterio, rispetto alla religione del suo tempo, e non solo quella giudaica, ma anche e soprattutto, per quanto ci riguarda, quella della comunità che aveva preso vita dalla sua persona, sia risultata a lungo scandalosa, è dimostrato dal fatto che solo assai tardivamente e superando molte resistenze, questo racconto trovò la sua sistemazione nel vangelo di Giovanni (benché fosse probabilmente di origine lucana). La posizione che Gesù assume non sminuisce la gravità dell’adulterio (anche per le sue implicazioni simboliche), che la Bibbia puniva con la morte, ma ribadisce la superiorità del perdono, come manifestazione specifica del Dio di Gesù, che esige dai suoi di perdonare settanta volte sette, cioè sempre. Questo, nella consapevolezza che tutti siamo adulteri rispetto all’alleanza che Dio ci propone e stipula con noi, dato che il vincolo che ci unisce a Lui è quella misericordia, che ci dice l’amore ostinato e senza ritorno del Padre, a cui dovremmo uniformarci, senza più né giudicare, né condannare. L’adultera del racconto è dunque anche l’immagine di una chiesa (e di ciascuno di noi), che tradisce l’alleanza con Dio, vendendosi ad una giustizia senza misericordia, che per far salva la legge uccide il peccatore. Mentre Gesù ci insegnerà con l’esempio che, piuttosto che uccidere anche un solo colpevole, preferisce morire lui che è la nuova Legge, interrompendo in tal modo il circolo vizioso della violenza (anche e soprattutto di quella comminata in nome del bene e della verità).

Oggi noi si fa memoria di Serafino di Vyritsa, monaco ortodosso, confessore della fede; di Jean Goss, profeta di pace e di nonviolenza, e di Aristides de Sousa Mendes, cristiano adulto, giusto tra le nazioni.

Vasilij Nikolaevic Muraviev (il futuro san Serafino) era nato il 31 marzo 1866 nella città di Cheremovsky, nella provincia di Yaroslavl, in Russia. Figlio di contadini, aveva perso il padre all’età di dieci anni e, ancora ragazzo, aveva cominciato a lavorare a San Pietroburgo. Pur desideroso di divenire monaco, scelse di ubbidire al suo padre spirituale, che lo consigliò di formarsi prima una famiglia e solo una volta cresciuti i figli, di abbracciare lui e la moglie la vita monastica. Sposò così nel 1890 la diciottenne Olga Ivanovna Naidenova, che gli diede due figli, Nicola e Olga, quest’ultima morta prematuramente. Professionalmente, Vasilij divenne negli anni successivi un facoltoso commerciante di pellicce, generoso tuttavia nell’aiutare i poveri e perseverante nella vita di fede. Fu solo nell’ottobre del 1920 che, dando seguito al suo desiderio giovanile, entrò nella Lavra di Sant’Alessandro Nevskij, assumendo il nome di Barnaba, Ordinato prete, nel 1921, e ricevuta sei anni più tardi la tonsura di monaco di Grande Abito, con il nome di Serafino, fu scelto come confessore dalla comunità della Lavra. Nel frattempo anche la moglie aveva abbracciato la vita monastica con il nome di Cristina (e, in seguito, Serafina), in un convento di San Pietroburgo. Alla fine degli anni ’20 tutti i monaci della Lavra furono arrestati e deportati. Padre Serafino continuò durante gli anni della prigionia ad agire come punto di riferimento spirituale, affrontando con serenità e coraggio gli stenti e le percosse della vita nel lager. Al suo rilascio nel 1933, si stabilì a Vyritsa, nelle foreste presso San Pietroburgo (divenuta Leningrado), dove si prese cura della chiesa della Madre di Dio di Kazan. Qui, benché malato, riceveva folle di visitatori che cercavano il suo aiuto, la sua preghiera e un suo consiglio. Dopo la guerra, nonostante il peggioramente delle condizioni di salute, pur costretto a letto, non smise di ricevere i pellegrini. Si spense il 21 marzo 1949 (corrispondente al 3 aprile nel calendario gregoriano). Pochi mesi prima era morta anche sua moglie, che negli ultimi anni era venuta ad abitare presso Vyritsa. Le loro tombe sono ora vicine, a fianco della chiesa della Madre di Dio di Kazan. Padre Serafino è stato canonizzato dalla Chiesa russa nell’agosto dell’anno 2000.

Jean Goss era nato il 20 novembre 1912 a Lyon (Francia). Tredicenne era dovuto andare a lavorare come artigiano, per aiutare la famiglia. In seguito sarebbe diventato ferroviere e militante sindacalista. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu inviato al fronte, dove fece in tempo a guadagnarsi qualche medaglia, prima di finire prigioniero, internato in un campo di concentramento. L’esperienza della prigionia gli cambiò la vita. Conobbe Dio, incontrò la fede e decise di porsi al servizio della volontà d’amore che Dio nutre nei confronti di tutta l’umanità. Dopo la liberazione, rientrato in patria, Goss restituì le decorazioni militari e divenne obiettore di coscienza. Nel 1953 incontrò colei che sarebbe diventata la compagna della sua vita, una viennese, classe 1930, Hildegard Mayr, figlia di uno dei fondatori del Movimento Internazionale della Riconciliazione e segretaria itinerante della stessa organizzazione, tenace assertrice della non-violenza. Dal loro matrimonio nacquero due gemelli, Myriam e Etienne. La loro attività non conoscerà più sosta. Durante il Concilio Vaticano II, assieme a Dorothy Day, Lanza del Vasto e altri esponenti non-violenti, si recarono a Roma per pregare e digiunare al fine di sensibilizzare i padri conciliari sui temi dell’obiezione di coscienza e sul pericolo della dottrina della deterrenza nucleare. Riuscirono a trovare udienza, e alcuni documenti conciliari, ma anche altre prese di posizioni ecclesiali, negli anni successivi e nei diversi continenti, lasceranno trasparire l’influenza dei loro suggerimenti. A partire da allora si moltiplicarono i contatti con coloro che passeranno allo storia come i testimoni del pensiero e della prassi non-violenta: Martin Luther King, dom Helder Camara, Luthuli, Adolfo Perez Esquivel, Lech Walesa, mons. Romero e, lì in Italia, don Milani, Danilo Dolci, mons. Bettazzi, don Tonino Bello, ecc. Sempre con la moglie Hildegard, organizzò tra il 1984 e il 1986 numerosi seminari non-violenti nelle Filippine, che contribuirono non poco al rovesciamento della dittatura di Marcos. Lo stesso sarebbe accaduto qualche anno dopo in Madagascar. Nel pieno delle sue forze, Goss morì improvvisamente il 3 aprile 1991. La moglie disse: “È morto con lo stesso vigore col quale ha vissuto”.

Figlio di Maria Angelina Ribeiro de Abranches e del giudice José de Sousa Mendes, Aristides de Sousa Mendes era nato, con il gemello César, il 19 luglio 1885, a Cabanas de Viriato, nel distretto di Viseu (Portogallo). I due fratelli crebbero insieme e furono educati in una tipica famiglia aristocratica, monarchica, cattolica e conservatrice. Entrambi si laurearono in Diritto e intrapresero la carriera diplomatica. Aristides, a partire dal 1910, svolse funzioni consolari nella Guyana Britannica, a Zanzibar, in Brasile, negli Stati Uniti d’America e in Belgio. Dato che nel frattempo si era anche sposato, i quattordici figli che ebbe dal matrimonio con la moglie Angelina, nacquero un po’ ovunque. Nel 1938 il dittatore Salazar, salito al potere nel 1932, lo nominò console a Bordeaux. Nel 1940, in seguito all’occupazione nazista e alla divisione della Francia, con l’inugurazione del regime di Vichy, numerosi ebrei si rifugiarono a Bordeaux. Nonostante le severe disposizioni, con cui Salazar proibiva alle sedi diplomatiche di rilasciare visti a quanti erano perseguitati dal nazismo, Souza Mendes, dopo un incontro con il rabbino Jacob Kruger, che ebbe su di lui, secondo la testimonianza del figlio Pedro Nuno, un effetto sconvolgente, tanto da costringerlo a letto per tre giorni e tre notti, maturò la decisione di disobbedire al suo governo. La mattina del 16 giugno aprì la porta del suo ufficio e disse: “A partire da adesso rilascerò il visto a tutti, indipendentemente da nazionalità, razza e religione”. In casa disse di aver udito la voce di Dio o della sua coscienza che gli aveva dettato la condotta da tenere: “Solo agendo in questo modo, seguendo la mia coscienza, sarò degno della mia fede di cristiano”. Lavorando ininterrottamente per quattro giorni con il suo amico rabbino, provvide il visto a oltre trentamila ebrei e altri perseguitati dal regime nazista, salvandoli da una sicura deportazione. Salazar, messo al corrente, lo destituì subito dopo. Alla fine della guerra, Sousa Mendes presentò ricorso al Supremo Tribunale Amministrativo e all’Assemblea Nazionale. Ma, inutilmente. Morì, il 3 aprile 1954, disonorato e in povertà, assistito da una nipote, nell’ospedale del Terz’Ordine francescano di Lisbona. Nel 1967 lo Yad Vashem d’Israele lo dichiarò “Giusto tra le Nazioni”, dedicandogli la medaglia con la scritta del Talmud: “Chi salva una vita umana è come se salvasse il mondo intero”. Il Parlamento portoghese lo riabilitò all’unanimità nel 1989, reintegrandolo nel servizio diplomatico. Forse un po’ tardi.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Daniele, cap.13,1-9.15-17.19-30.33-62; Salmo 23; Vangelo di Giovanni, cap.8,1-11.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una citazione di Jean Goss, tratta dal suo libro “Fede e nonviolenza” (Edizioni L’Epos). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per liberare il mondo dal male, il solo metodo che sia allo stesso tempo umano e cristiano, vivo e vero, è la nonviolenza; essa rispetta integralmente la vita, senza mai distruggerla. È su questo rispetto della vita che si poggia ogni civiltà degna di questo nome. La nonviolenza attiva mette sempre in perfetto accordo i mezzi con i fini, perché è sempre piena di amore assoluto per tutti. Questo amore deve essere vivo e veritiero, come l’amore di Cristo. La nonviolenza attiva è in definitiva ciò che c’è di più efficace; comprende le soluzioni di pensiero e di azione più realiste per tutti i problemi e per il mondo intero. Questo è estremamente importante; il nonviolento non deve cercare l’efficacia fine a se stessa, perché finirebbe per accettare qualsiasi mezzo. Per il nonviolento l’efficacia è essenzialmente fedeltà alla verità, alla giustizia, al rispetto assoluto della persona umana. Qualcuno potrebbe obiettare: ma allora la nonviolenza, più che un metodo di lotta per la giustizia è un fine? La nonviolenza non è un metodo né un fine: essa è uno spirito, un modo di pensare, un nuovo modo di essere e di agire. È credere che l’altro è me stesso, è carne della mia carne, e non devo mai identificarlo col male che compie. (Jean Goss, Fede e nonviolenza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Aprile 2017ultima modifica: 2017-04-03T22:18:24+02:00da fraternidade
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