Giorno per giorno – 12 Febbraio 2017

Carissimi,
“Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20). Come va con la nostra, di giustizia?, ci chiedevamo stamattina durante l’Eucaristia, presieduta in monastero da frei Marcos. Se noi non sperimentiamo ancora il Regno, quello segnalato dalle Beatitudini, è perché la nostra “giustizia” – che poi sarebbe meglio rendere con “fedeltà” – è, nella migliore delle ipotesi una fedeltà solo esteriore alle prescrizioni e agli insegnamenti che ci derivano dalla Bibbia, una pratica un po’ triste, rassegnata, qualche volta, addirittura, risentita, senz’anima, insomma, tipo quella che caratterizzava il fratello maggiore della parabola del figlio prodigo. Una giustizia, che il buon Dio ne farebbe volontieri a meno, arrivando a preferirle, segretamente, è ovvio, le scappatelle dl figlio minore. Il regno di Dio è altro. È quello in cui la legge emana come passione del cuore, che non si “sopporta” per tutta la vita, come una coppia stanca, in cui è venuto meno l’amore, e che resta insieme perché non ha altro da fare, o per via delle convenzioni sociali o ecclesiali, ma è una passione che “porta”, con tutte le fatiche, allegrie, difficoltà, soddisfazioni, inciampi, cadute, rinascite, riprese. Dove non si ha tempo di guardare, giudicare, condannare gli altri, perché, tra l’altro, sarebbe già essere ingiusti, cioè infedeli a Dio, che è misericordia e compassione. Se noi ce ne stiamo lì a osservare il comportamento degli altri, pronti a sputare sentenze, siamo già, in cuor nostro, assassini, adulteri e spergiuri, fuori del senso più vero della Legge di Dio, che ha mandato il suo figliolo non per giudicare il mondo, ma per salvarlo. La nostra fedeltà a Dio si misura allora sulla nostra partecipazione al progetto di salvezza, cioè di liberazione dalle potenze del male in tutte le sue forme, che Dio ha inventato per il mondo, e che si chiama Gesù Cristo. La religione sarà servita a niente (forse solo a farci più biliosi, come se ne vedono tanti in giro e non ce ne sarebbe proprio bisogno), se non ci saremo proposti di seguire i passi di Gesù, che ci vuole come Lui, liberi per amare.

Bene, i testi che la liturgia di questa 6ª Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Siracide, cap.15, 16-21; Salmo 119; 1ª Lettera ai Corinzi, cap.2, 6-10; Vangelo di Matteo, cap.5, 17-37.

La preghiera della domenica è, come sempre in comunione con le chiese cristiane di tutte le denominazioni.

Il nostro calendario ci porta oggi le memorie di Dorothy Stang, missionaria e martire della solidarietà in Brasile, di Vittorio Bachelet, martire della giustizia in Italia, e di Lorenzo della Risurrezione, mistico del nascondimento quotidiano, in Francia.

Dorothy Stang era nata il 7 luglio 1931, a Dayton, nello Stato dell’Ohio (Usa). Nel 1948 era entrata nella congregazione di Notre Dame di Namur, un ordine che conta circa duemila suore sparse nei cinque continenti. Emessi i voti solenni nel 1956, aveva continuato ad insegnare nelle scuole della Congregazione sino al 1966, quando fu mandata in Brasile. Stabilitasi a Coroatá, nel Maranhão, cominciò subito ad occuparsi della situazione e delle lotte dei contadini più poveri. Trasferitasi nel Pará, seguendo i flussi migratori della sua gente alla ricerca di migliori condizioni di vita, Dorothy si impegnò con la Commissione Pastorale della terra nella creazione di un nuovo modello di insediamento agricolo, basato sulla produzione familiare e sulle attività estrattive di sussistenza a basso impatto ambientale. Inevitabile lo scontro con gli interessi di latifondisti e fazendeiros della regione, che iniziarono a moltiplicare le minacce di morte nei confronti della religiosa. Il 12 febbraio 2005, secondo il racconto di alcuni testimoni, due pistoleiros abbordarono irmã Dorothy ad Anapú, tenendola sotto la minaccia delle armi. La religiosa senza scomporsi tentò di dissuaderli dal mettersi nei guai, mostrò loro che aveva come unica arma di difesa la Bibbia, giunse persino a legger loro alcuni versetti. Ma, inutilmente: nove colpi sparati a bruciapelo posero fine alla vita di questa suora, che aveva dedicato la sua vita ai poveri.

Vittorio Bachelet era nato il 20 febbraio del 1926 a Roma, ultimo di nove fratelli, nella famiglia, di origine piemontese, di Giovanni e Maria Bosio. Decisivi per la sua formazione cristiana furono l’esempio della madre, catechista, e la guida dei sacerdoti che ne accompagnarono la crescita e la maturazione. Nel 1934 aderì all’Azione cattolica, poi, da studente universitario, alla FUCI e, infine, al Movimento Laureati. Nel 1951 sposò la compagna della sua vita, Maria Teresa, da cui avrà due figli, Maria Grazia e Giovanni. Ricoprì ruoli di rilievo sia in ambito ecclesiale che in quello professionale. Fu professore universitario a Trieste, Palermo e Roma. Giovanni XXIII lo nominò vice-presidente dell’ AC. e Paolo VI, nel 1964, presidente. Sotto la sua presidenza fu inaugurata la scelta religiosa dell’organizzazione, con l’intento di procedere al suo rinnovamento, alla luce delle novità scaturite dal Concilio. Dopo gli anni del presenzialismo e dell’interventismo a vasto raggio, era tempo per l’Azione cattolica, di “riprendere a pregare, a meditare, a far sua la missione della Chiesa sul piano della formazione delle coscienze, imitando Gesù mite e umile di cuore”, riscoprendo “la centralità dell’annuncio di Cristo, l’annuncio della fede da cui tutto il resto prende significato”. Questa centralità di Gesù, soprattutto nella sua dimensione eucaristica (vita che si dona) non fu semplice enunciazione di principi, ma si tradusse per Bachelet in testimonianza concreta di vita in ogni suo ambito. Nel 1976, dopo essersi dimesso da ogni posto di responsabilità ecclesiale, per evitare possibili strumentalizzazioni, si candidò alle elezioni per il consiglio comunale di Roma e fu eletto con un numero altissimo di preferenze. Pochi mesi più tardi, tuttavia, dovette lasciare l’incarico, perché nominato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione, venne assassinato da due terroristi delle Brigate Rosse, nell’atrio della facoltà di scienze politiche. Ai suoi funerali, due giorni dopo, il figlio Giovanni pregò così: “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”.

Nicola Herman era nato ad Hériménil, presso Lunéville, in Lorena, nel 1614, da Joseph de Beaufort e Louise Mayeur. A diciotto anni, d’inverno, contemplando un albero spoglio, “ricevette, secondo le parole del suo biografo, un’alta concezione della provvidenza e della potenza di Dio, che mai si cancellerà dalla sua anima”. La vita, tuttavia, riprese il suo ritmo di sempre. Miseria, fame, guerra. Interminabili. Nicola si arruolò nell’esercito del duca Carlo IV. Fu fatto prigioniero dai tedeschi e rilasciato. Successivamente, ferito gravemente, fece ritorno a casa. Lì fece una prima esperienza di vita eremitica, che durò poco. Trasferitosi a Parigi, lavorò come cameriere a Parigi. Ma viaggiava sull’imbranato, e rompeva tutto. Conosciuta la chiesa dei frati carmelitani, in rue de Vaugirard, cominciò a frequentarla e nel 1640 decise di entrare in convento come fratello laico, prendendo il nome di Lorenzo della Risurrezione. Sarà cuoco, poi calzolaio al servizio di quella comunità. Il che non risultò affatto semplice, perché, per molto tempo, Lui non si fece sentire. Per dieci anni, infatti, Lorenzo attraversò una lunga notte dello spirito, finché, con un atto di abbandono totale, cambiò tutto. Ed egli divenne testimone radioso della presenza di Dio. Negli anni successivi, la sua fama si sparse e cominciò ad arrivare gente a cercarlo, anche personaggi famosi come Fénelon. Dopo la sua morte avvenuta il 12 febbraio 1691, l’abate G. de Beaufort prenderà l’iniziativa di pubblicare una piccola collezione delle sue massime spirituali e di altri scritti, che presto furono tradotti da studiosi protestanti ed anglicani in tedesco, in inglese e più tardi in una quindicina di altre lingue. Insegnava che la vita spirituale consiste tutta nella pratica della presenza di Dio, “un mestiere” che bisogna “imparare”: un po’ penoso all’inizio, ma che praticato con fedeltà, produce poi, segretamente, nell’anima, effetti meravigliosi. “Non ci si deve mai stancare di compiere piccole cose per amor di Dio che guarda non la grandezza dell’opera, ma l’amore” e ancora: “Io giro la mia frittata nella padella per amore di Dio”.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una citazione di fra Lorenzo della Risurrezione, tratta dal libro di Conrad De Meester “Lorenzo della Risurrezione. Nel sole della presenza di Dio” (Libreria Editrice Vaticana). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dobbiamo, durante il nostro lavoro e le altre occupazioni, anche durante le nostre letture e il nostro scrivere, benché esse siano spirituali, dico di più: durante le nostre devozioni esteriori e le preghiere vocali, fermarci un istante, anche il più spesso possibile, per adorare Dio nel fondo del nostro cuore, gioirne sia pure di sfuggita e come furtivamente. Poiché non ignorate che Dio è presente davanti a voi nelle vostre azioni, che egli è nel fondo e nel centro della vostra anima, perché dunque non fermare, almeno di tanto in tanto, le vostre occupazioni esteriori e persino le vostre preghiere vocali per adorarlo interiormente, lodarlo, chiedergli grazie, offrirgli il vostro cuore e ringraziarlo? (Conrad De Meester, Lorenzo della Risurrezione. Nel sole della presenza di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Febbraio 2017ultima modifica: 2017-02-12T22:18:28+01:00da fraternidade
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