Giorno per giorno – 03 Febbraio 2017

Carissimi,
“Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi. Altri invece dicevano: È Elìa. Altri ancora dicevano: È un profeta. Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!” (Mc 6, 14-16). La domanda che Erode si pone, e che offre lo spunto all’evangelista per raccontare la fine del Battista, è relativa all’identità di Gesù. Cui guarda con timore per via della sua crescente notorietà. Proprio come suo padre, Erode il Grande, trent’anni prima, secondo il racconto che ne fa Matteo, aveva accolto con allarme dai magi la notizia della nascita del “re dei giudei” (cf Mt 2, 2-3). Se Gesù è Giovanni redivivo, è anche più pericoloso, deve aver pensato Erode, dato che era lui che l’aveva fatto decapitare. Detentore di un potere assoluto nell’ambito della sua tetrarchia, che comprendeva Galilea e Perea, Erode era però, a sua volta, tributario dell’imperatore romano, che gli lasciava mano libera, purché gli garantisse le entrate previste. Giovanni, lui era stato messo a morte per averne denunciato l’adulterio, avendo sposato la moglie del fratello, ma assai più per aver tradito, con la corruzione, l’oppressione, la prepotenza che caratterizzavano la sua opera di governo, il popolo che avrebbe dovuo essere oggetto delle sue cure. Le storie dei nostri governi e dei poteri forti che essi esprimono e gli altri a cui si piegano, non sono granché differenti. Come anche la facilità con cui ricorrono ad eliminare, rendere inoffensivi, tacitare le voci che si levano a denunciare i misfatti. Stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, ci chiedevamo quale sia la nostra pratica. Se preferiamo collocarci prudentemente dalla parte di Erode, o fingere di non vedere, o se siamo ancora capaci di indignazione e di offrirci almeno come voce a coloro che non ne hanno più, o non l’hanno mai avuta. La domanda di Erode è la stessa che siamo chiamati a porci: chi è Gesù per noi? Lui ha scelto di identificarsi con gli ultimi e i perdenti della storia. Noi sappiamo vederlo lì e agire di conseguenza?

Oggi, il calendario ci porta le memorie di Biagio di Sebaste, medico, vescovo e martire; di Alois Anditzki, presbitero e martire del totalitarismo nazista; e dei quattro cappellani militari del Dorchester, che diedero la vita per salvare dei loro commilitoni.

Biagio presiedeva la Comunità di Sebaste, in Armenia, durante l’impero di Licinio (che si occupava dell’Oriente), cognato di Costantino (che invece governava l’Occidente). I due, non si sa bene perché, entravano spesso in conflitto. Nessuno dei due, del resto, era uno stinco di santo. Tanto è vero che Costantino fece strangolare Licinio a Salonicco nel 325. Ora, mentre Costantino, nel 313, aveva emesso il decreto che concedeva la libertà di culto ai cristiani, Licinio, tergiversava e lasciava mano libera ai suoi governatori, che bruciavano chiese, condannavano i cristiani ai lavori forzati e facevano fuori i loro vescovi. Tra loro, Biagio. Imprigionato, ripetutamente torturato, infine condannato alla decapitazione, raccontano di lui che mentre si recava al luogo del supplizio, vide un ragazzo tra i curiosi che assistevano al suo passaggio che stava morendo soffocato a causa di una lisca di pesce conficcatasi nella trachea. Dribblate le guardie, Biagio raggiunse il ragazzo, soccorrendolo tempestivamente. Poi riprese il suo posto nel corteo che lo portava all’arena. Il racconto ne avrebbe fatto a lungo il protettore contro le malattie della gola.

Alois Anditzki era nato nel 1914 a Radibor, un villaggio rurale del circondario di Bautzen, in Sassonia (Germania). Il desiderio di porsi al servizio del prossimo, lo portò ad entrare nel seminario di Meißen. Nel 1938 venne ordinato diacono, e un anno dopo presbitero. Svolse il suo ministerio pastorale come cappellano nella parrocchia Hofkirche di Dresda, dedicandosi soprattutto all’evangelizzazione e all’animazione dei giovani. Lì, si fece conoscere come “sacerdote umile, semplice e sempre disponibile ad aiutare il prossimo”. Nell’inverno del 1941, per aver messo in scena una rappresentazione teatrale in cui mostrava come sarebbero finiti i cristiani nella Seconda Guerra Mondiale, fu convocato in questura e arrestato, sotto l’accusa di dichiarazioni ostili nei confronti dello Stato, che ne mettevano a repentaglio la sicurezza. Venne per questo inviato dalla Gestapo nella prigione politica di Dresda, dove rimase due mesi. Allo scadere della pena, invece di essere liberato, fu inviato nel campo di concentramento di Dachau. Inutilmente la famiglia presentò ricorso alle autorità. Padre Alois fu assassinato il 3 febbraio 1943, con un’iniezione letale. Aveva ventinove anni. I suoi compagni di prigionia testimoniarono in seguito che egli passò tra loro come un santo, seminando gioia, fiducia e speranza e conquistando l’amicizia e la simpatia di tutti.

Nel ribadire che sogniamo il giorno in cui preti, pastori, rabbini, inquadrati negli organici militari, lasceranno le loro stellette (e i relativi stipendi), per testimoniare la loro obiezione ad ogni esercito e ad ogni violenza ed essere soltanto annunciatori della Parola di Pace, fedeli ad un’unica patria, quella della comune umanità, scegliamo, nondimeno, di far memoria di alcuni di loro, che hanno saputo fare la cosa giusta, anche se con la divisa [come lo è ogni divisa] sbagliata. Si chiamavano: Clark Poling (nato il 7 agosto 1910 a Columbus, nell’Ohio), ministro congregazionalista; George Fox (nato a Lewistown, in Pennsylvania, il 15 marzo 1900), pastore metodista, Johnny Washington (nato a Newark, nel New Jersey, il 18 luglio 1908.), prete cattolico e Alexander Goode (nato a Brooklyn, New York, il 10 maggio 1911), rabbino ebreo, ed erano tutti e quattro cappellani militari sull’incrociatore Dorchester, della marina Usa, durante la Seconda Guerra mondiale. La mattina del 3 febbraio 1943, la nave fu silurata. I cappellani stavano indossando i loro giubbotti di salvataggio, quando si accorsero che molti dei 900 marinai ne erano sprovvisti. Decisero unanimente di privarsene, perché almeno altri quattro potessero vivere. I sopravvissuti dissero poi che quando la nave s’inabissò, videro i cappellani con le braccia legate pregare insieme sul ponte.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 13, 1-8; Salmo 27; Vangelo di Marco, cap.6, 14-29.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica che professano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

Il 3 febbraio 1909 nasceva a Parigi, Simone Weil, una delle voci più alte del secolo scorso e testimone di una fede vissuta con radicalità estrema. Noi ne facciamo memoria il 24 agosto, giorno della sua scomparsa, ma vogliamo renderle omaggio anche in questo giorno, offrendovi, nel congedarci, un brano tratto dal suo scritto “A proposito del “Pater”, che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che di continuo traggono dall’esterno la loro energia, poiché, via via che la ricevono, la esauriscono nei loro sforzi. Se la nostra energia non è quotidianamente rinnovata, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Al di fuori del nutrimento propriamente detto, tutto ciò che ci stimola è per noi fonte di energia. Il denaro, l’avanzamento, la considerazione, le decorazioni, la celebrità, il potere, le persone amate, tutto ciò che mette in noi la capacità di agire è come il pane. Quando una di queste affezioni penetra in noi tanto profondamente da arrivare alle radici vitali della nostra esistenza fisica, l’esserne privati può spezzarci e persino farci morire: è quel che si dice morire di dolore. È come morire di fame. Gli oggetti delle nostre affezioni costituiscono, con il nutrimento propriamente detto, il pane di quaggiù. Dipende interamente dalle circostanze di accordarcelo. Per quanto concerne le circostanze, dobbiamo chiedere soltanto che esse siano conformi alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù. Esiste un’energia trascendente la cui sorgente è in cielo e che passa in noi non appena lo desideriamo. È veramente una energia e si traduce in azione tramite la nostra anima e il nostro corpo. È questo l’alimento che dobbiamo chiedere. Nel momento in cui lo chiediamo, e per il fatto stesso che lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole darcelo. Non dobbiamo tollerare di restare un solo giorno senza di esso. Poiché quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposte alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male. «Dio vide che i misfatti dell’uomo si moltiplicavano sulla terra, e che il frutto dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità che ci costringe al male governa tutto in noi, salvo l’energia che ci viene dall’alto nel momento in cui entra in noi. Non possiamo farne provvista. (Simone Weil, A proposito del “Pater”).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 03 Febbraio 2017ultima modifica: 2017-02-03T22:50:02+01:00da fraternidade
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