Giorno per giorno – 08 Agosto 2014

Carissimi,
“Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24-25). Gesù aveva subito prima rimproverato con durezza Pietro, per aver cercato di distoglierlo dalla via che l’avrebbe portato alla morte e, chiamandolo Satana, l’aveva invitato bruscamente a mettersi “dietro a lui”, a non pretendere, cioè, di essere lui ad insegnargli il cammino. Ed ora, gli mostra in che consiste e cosa esige la sequela. In primo luogo, rinnegare se stessi: l’io è, da sempre, il grande idolo che la fa da padrone, disposto, per imporsi, a sacrificare tutti gli altri. Gesù chiede che, come ha fatto Lui, ci si dia via. Che si diventi dono. Quando l’io non è più in gradi di asservirci, perché ce ne siamo liberati, abbiamo conquistato cioè la nostra libertà, ci è chiesto di prendere la nostra croce. Che non sono i triboli che ci capitano tra capo e collo ogni giorno, o le sofferenze che ci arrivano (che noi, appunto, si è presa l’abitudine di chiamare croci), che, anzi, Gesù è venuto proprio per liberare e insegnarci a liberare noi e gli altri dalla sofferenza: “liberaci dal male”, è una delle invocazioni programmatiche della preghiera che ci ha insegnato. Croce è la conseguenza di un nostro atto di libertà, che ci fa scegliere di condividere il destino di quanti sono esclusi dalla società, di cui si denuncia, senza mezzi termini l’iniquità, annunciando e testimoniando con la vita la nuova scala di valori, insita nella proposta del Regno, proclamata nelle beatitudini, consacrata dalla prassi di Gesù. Che è vita al servizio degli ultimi, fino alle estreme conseguenze. Nel far questo, paradossalmente, noi sperimentiamo la salvezza. Per dirla con François Varillon “Il dono di se stessi, cioè, l’amore del prossimo, è costitutivo della salvezza. Non è un mezzo per la salvezza, non è una condizione per la salvezza. È la stessa salvezza”. Dato che il dono è lo stesso Dio. Noi, però, vorremmo non capirlo mai. Perché, a capirlo, siamo già presi nel laccio di Dio. E perduti. Come quando si è perdutamente innamorati. Cioè, salvati.

Oggi la Chiesa le memorie di Domenico di Guzman, fondatore dei Frati Predicatori, di Bonifacia Rodríguez Castro, fondatrice delle Serve di san Giuseppe, e di Maria Elena MacKillop, fondatrice delle suore di san Giuseppe del Sacro Cuore di Gesù.

Nato nel 1170 a Caleruega, nella Vecchia Castiglia (Spagna), quando, a 15 anni, ancora studente, viene a contatto con le miserie causate dalle continue guerre e dalla carestia, Domenico vende le suppellettili della propria stanza e le preziose pergamene per costituire un fondo per i poveri. A chi gli esprime stupore per quel gesto risponde: “Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?”. Terminati gli studi, a 24 anni, il giovane entra tra i “canonici regolari” della cattedrale di Osma, dove viene consacrato sacerdote. Desideroso di recarsi in missione tra le popolazioni pagane, accetta tuttavia dal papa Innocenzo III l’incarico di dedicarsi a predicare contro la diffusione dell’eresia albigese, in Francia. Assieme ad alcuni amici fonda nel 1215 l’ordine dei frati predicatori. Convinto che il maggior ostacolo alla conversione sia la ricchezza materiale di gran parte del clero, decide che il suo ordine viva in povertà e semplicità. Negli ultimi anni, l’Ordine dimentica il primitivo impegno ad usare la “logica della persuasione e non della forza” per convincere le persone della verità cristiana, tanto che molti dei suoi frati diventano membri attivi dell’Inquisizione. Sfinito dal lavoro apostolico ed estenuato dalle grandi penitenze, Domenico muore il 6 agosto 1221, circondato dai suoi frati, nel convento di Bologna. Lungo i secoli molti dei suoi seguaci sarebbero stati esempio di difesa dei diritti dei più poveri, di impegno per la giustizia sociale, di testimonianza all’Evangelo del Regno, fino al dono della vita.

Bonifacia Rodríguez Castro era nata a Salamanca (Spagna) il 6 giugno del 1837 da Maria Natalia e Juan, una coppia di artigiani, profondamente religiosi. Terminati gli studi elementari imparò il mestiere di cordonaia e all’età di quindici anni, in seguito alla morte del padre, si recò a lavorare come operaia, per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Potè così sperimentare, in prima persona, le dure condizioni di lavoro del tempo. Dal 1865, Bonifacia e sua madre, rimaste sole, si dedicarono a una vita di profonda pietà. Con un gruppo di ragazze di Salamanca, attratte da questa testimonianza di vita, decisero di fondare un’associazione che si prendesse a cuore le condizioni della donna lavoratrice. L’incontro con il gesuita catalano Francisco Javier Butinyà, giunto a a Salamanca nell’ottobre del 1870 con una grande preoccupazione apostolica verso il mondo della classe operaia, incise radicalmente nella vita di Bonifacia. Fu infatti su sua ispirazione che la donna fondò la congregazione delle Serve di San Giuseppe, nei cui laboratori, guidati dalla spiritualità della casa di Nazareth, le suore lavorano come operaie lato a lato di donne povere che non avevano lavoro. Da subito, tuttavia, la fondazione fu vista con sospetto e suscitò l’opposizione del clero di Salamanca, che ottenne l’allontanamento di P. Butinyà, il trasferimento del Vescovo che aveva dato la sua approvazione all’istituto e alla congregazione nuovi statuti e una nuova direzione, con suore che scelsero di essere maestre e non operaie. Per Bonifacia seguirono anni di umiliazioni, rifiuto, disprezzo e calunnie, sopportati in umiltà e silenzio. Emarginata dalla congregazione che aveva fondato, aprì a Zamora, col permesso del vescovo, una nuova comunità, fedele all’intuizione originaria. Lì, circondata dall’affetto delle sorelle e della gente di Zamora che la venerava come una santa, morì, l’8 agosto del 1905. Solo nel gennaio del 1907, la casa di Zamora si vide riconosciuta e si riunì al resto della Congregazione, come Bonifacia aveva fino all’ultimo sperato.

Maria Elena MacKillop (conosciuta in seguito come Madre Maria della Croce) era nata a Fitzoroy (Australia) il 15 gennaio 1842, figlia primogenita di una coppia di immigrati scozzesi. Benché desiderasse, fin dalla prima giovinezza, abbracciare la vita religiosa, dovette ritardare la realizzazione del suo sogno, per sopperire alle necessità della famiglia. Nel 1860 ricevette l’incarico di insegnante a Penola nell’odierno Stato dell’Australia Meridionale, dove incontrò padre Giuliano Tenison Woods, che divenne il suo padre spirituale, e con cui poco dopo fondò la Congregazione delle Suore di S. Giuseppe del Sacro Cuore di Gesù, con la missione di aprire scuole per i bambini poveri. Maria Elena andò ad insegnare per quattro anni a Portland nello Stato di Vittoria per ritornare a Penola nel 1866 dove aprì una scuola cattolica per ragazzi poveri, coadiuvata da un primo gruppo di ragazze che aderirono alla sua opera di carità. Nel 1867 aprì una seconda scuola ad Adelaide e altre ancora in breve tempo, mentre aumentava il numero delle consorelle e l’attività della congregazione si estendeva fino a comprendere l’assistenza agli orfani, ai poveri e ai vecchi. Nel 1870 la MacKillop e le sue consorelle denunciarono gli abusi di cui si era reso responsabile un certo padre Keating: le accuse furono provate e il prete venne rispedito in Irlanda (ufficialmente, per abuso d’alcol). Il vescovo della diocesi di Adelaide, monsignor Sheil, anziano e ammalato, si lasciò però convincere dal vicario generale Charles Horan (amico e collega del prete pedofilo) a intervenire con severità contro le Sorelle, cambiando le regole della congregazione. Di fronte al rifiuto della giovane fondatrice e superiora, il vescovo la scomunicò per insubordinazione. Dopo un anno, tuttavia, lo stesso Sheil, ormai prossimo alla morte, revocò la scomunica. In seguito, una commissione episcopale riabilitò completamente la religiosa. L’approvazione della congregazione da parte di Leone XIII giunse, infine, nel 1888. Debilitata nel fisico per gravi malattie, pur essendo rimasta indomita nello spirito, la madre Maria della Croce morì l’8 agosto 1909 a Sydney. È stata canonizzata a Roma da papa Benedetto XVI .

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Naum, cap. 2,1.3; 3,1-3.6-7; Salmo (Dt 32, 35-41); Vangelo di Matteo, cap.16, 24-28.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che professano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

È tutto, anche per stasera. E se non si ha sottomano nulla da proporvi di Domenico di Guzman, si ha però sempre qualcosa di un suo brillante successore, l’ottantaquattresimo della lista, Timothy Radcliffe, che ha retto l’ordine dei predicatori dal 1995 al 2001. Di lui, nel congedarci, vi proponiamo il brano di un’omelia pasquale, dal titolo “Enduring love” (torch.op.org, the Electronic Publishing House of the English Province of the Order of Preachers). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La vita eterna non è un’altra vita che comincia dopo che si è morti. È il nostro amore di Dio che comincia ora e che la morte non può distruggere. Gesù disse a Marta poco prima di chiamare Lazzaro fuori dalla tomba: “Io sono la Risurrezione e la vita. Coloro che credono in me, anche se muoiono, vivranno” Gv 11, 25). La morte non ha potere su di noi perché la nostra vita è questa relazione con Colui che ha sconfitto la morte. La morte resta orribile perché è una forma di estinzione. Newman, in Il sogno di Geronzio, la descrive come “la negazione magistrale e il crollo di tutto ciò che mi rende l’uomo”. Forse la malattia e la morte più seguita nella storia dell’umanità è stata quella di Papa Giovanni Paolo II. Egli ha testimoniato la sua speranza di fronte alla malattia e alla morte, eppure anche lui ha riconosciuto che c’è qualcosa di terribile nella morte: “La morte comporta la dissoluzione dell’intera personalità psicofisica dell’uomo… il male che l’essere umano sperimenta nella morte ha un carattere definitivo e totale”. Ma la morte non distrugge quel rapporto d’amore con colui che si chiama IO SONO. Come è che questa credenza nella Risurrezione si manifesta adesso? Prima di tutto, vivendo come amici di Dio. Che, secondo Matteo, consiste soprattutto nel vivere le beatitudini: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli; beati i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i puri di cuore, gli operatori di pace, e così via. Noi non cerchiamo di viverle per meritare la vita dopo la morte, come ricompensa. Esse sono già l’inizio della vita eterna ora, eterna amicizia. In secondo luogo, possiamo affrontare la nostra mortalità, senza paura paralizzante. Saul Bellow, il romanziere americano, ha affermato che “l’ignoranza della morte ci sta distruggendo”. È il fondo scuro di cui uno specchio ha bisogno prima che ogni cosa sia vista. Siamo come l’uomo che è caduto dal 50° piano di un grattacielo. Mentre passa al 15° piano, alcuni amici gli gridano: “Come vanno le cose?”, “Finora, tutto bene!”. Paradossalmente, mostriamo di credere nella vita eterna vivendo in pienezza adesso, con gioia e generosità. La nostra vita presente deve essere apprezzata e amata, perché è il dono di colui che ha già cominciato a darci tutto. Di fronte alla morte siamo liberi di amare, di dare le nostre vite, liberi di fare ciò che è giusto. Nel film Uomini di Dio, sull’omicidio di una comunità di monaci cistercensi in Algeria, il vecchio fratello Luca dice al Priore: “Io non ho paura della morte. Io sono un uomo libero” (Timothy Radcliffe O.P., Enduring love).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Agosto 2014ultima modifica: 2014-08-08T22:26:09+02:00da fraternidade
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