Giorno per giorno – 12 Maggio 2011

Carissimi,

“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6, 51). C’è, dunque, un pane che ci fa vivere in eterno, ci sottrae, cioè, in qualche modo, agli eventi di una  vita comune e ci trasporta già nella vita di Dio. O, forse, detto meglio, ci fa attraversare quegli accadimenti alla maniera di Dio. Nulla, comunque, ma proprio nulla, di fuga dalla realtà. Anzi, è proprio vero il contrario. Noi viviamo la vita di Dio, quanto più ci caliamo nella realtà. La vita di Dio è infatti “darsi da mangiare per la vita del mondo” e non c’è nulla di più materialistico che il mangiare. E il digerire, che ci permette di assimilare ciò di cui ci siamo alimentati.  Quindi il valore nutritivo che ha per noi il corpo, cioè la vita, cioè la maniera d’essere di Gesù (e di Dio), che poi è la sua Parola incarnata e l’Eucaristia che la significa,  noi lo riveleremo nella nostra capacità di riproporlo nelle nostre relazioni con gli altri. Ma, siamo noi, davvero, della stessa pasta di Dio?

 

Oggi il nostro calendario ecumenico ci porta le memorie di Rabbi Meir  e di sua moglie Beruriah, sapienti in Israele; e di Irena Sendler, “giusta tra le nazioni”.

 

12 RABBI MEIR.jpgDiscepolo di Akiva, e Maestro Tannaita del II secolo,  Rabbi Meir era discendente di pagani convertiti al giudaismo. In realtà il suo nome era Measha, o Nechemiah, ma fu chiamato Meir o, in aramaico, Nehorai, (l’Illuminatore), perché  illuminava le menti degli studiosi dell’halacha (la parte giuridica del Talmud). Quando la Mishna non cita per nome l’autore di un’opinione, si ritiene sia un insegnamento del nostro.  Scriba di professione, raccontano che guadagnasse tre selah per settimana. Ne spendeva uno per comprare cibo, un altro per il vestiario e il terzo lo versava agli studiosi della Legge. Quando i suoi alunni gli fecero notare che in tal modo non accantonava nulla per i suoi figli, rispose: “Se essi saranno retti, sarà vero per loro ciò che disse il re David: Non si è mai visto un giusto abbandonato e i suoi figli costretti a mendicare il pane (Sal 37,25). Se non lo saranno, perché dovrei lasciare del mio a dei nemici di Dio?”.  Beruriah, moglie di Rabbi Meir, fu la  figura femminile di maggior spicco del periodo talmudico. Figlia di Rabbi Chanina Ben Teradion, martirizzato per aver insegnato pubblicamente la Torah, nonostante un divieto imperiale, la donna godeva di una considerevole reputazione come erudita, e spesso si preferiva la sua opinione a quella dei sapienti che le si opponevano. Lo stesso Meir si avvaleva sovente del suoi consigli. La sua vita fu marcata dalla tragedia: oltre al padre torturato a morte dai romani, sua sorella fu obbligata a prostituirsi, suo fratello fu ucciso dai banditi e infine i suoi due figli morirono improvvisamente nel pomeriggio di un sabato. Per non turbare la gioia sabbatica del marito, aspettò l’ora del tramonto, lo chiamò  e gli chiese se era tenuta a restituire alcuni oggetti che le erano stati affidati. Il marito rispose che aveva l’obbligo di farlo. Lei allora lo condusse nella camera dei figli e scoprendone i corpi inanimati disse, citando il libro di Giobbe: “Il Signore dá, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore”. Rabbi Meir morì in Asia Minore, verso il 175 d.C. Chiese di essere sepolto in Israele, in riva al mare, perché le onde che bagnavano la sua terra, coprissero anche la sua tomba. Successivamente il suo corpo venne esumato e sepolto nuovamente a Tiberiade, dove la tomba divenne meta di pellegrinaggi. Nel calendario ebraico, la memoria di Rabbi Meir (da noi unita a quella della sposa Beruriah) cade il 14 Iyar (data mobile tra aprile e maggio).

 

12 SANDLER.jpgIrena Krzyzanowski era nata a Otwock, una cittadina a circa venti chilometri da  Varsavia (Polonia), il 15 febbraio 1910 da Janina e Stanislaw Krzyzanowski, un medico, che fu tra i primi membri del Partito socialista polacco, e uno dei pochi medici cattolici che, a quel tempo, accettarono di prestare assistenza alle famiglie povere della locale comunità ebraica. Morirà nel febbraio 1917, di tifo, contratto mentre assisteva i pazienti, che i suoi colleghi avevano rifiutato di curare. Fu per l’educazione ricevuta dai genitori che, già da bambina, Irena frequentò ed ebbe modo di conoscere e di simpatizzare con i suoi piccoli compatrioti ebrei. Terminati gli studi, sposò  Mieczyslaw Sendler (con il cui cognome sarebbe stata conosciuta in seguito, nonostante il fallimento del matrimonio, subito dopo la guerra). All’epoca dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939, Irena lavorava come infermiera per i servizi sociali del comune di Varsavia. Quando si scatenò la perscuzione nei confronti degli ebrei, decise da subito che non poteva restare indifferente e che doveva darsi da fare. Nei mesi che seguirono, lei ed altri volontari fabbricarono migliaia di documenti falsi per aiutare le famiglie ebree a nascondersi.  Nel dicembre del 1942, il movimento clandestino Żegota (Consiglio per l’aiuto agli ebrei), da poco creato,  la nominò, con il nome di battaglia di Jolanta, a dirigere la sezione che si occupava del salvataggio dei bambini. Come impiegata dei servizi sociali di Varsavia aveva diritto di accesso al ghetto della città. Fu così che si ingegnò in mille modi per nascondere e portar fuori dal ghetto quanti più bambini possibile, affidandoli poi, con documenti falsi, presso famiglie fidate nelle campagne circostanti, o presso conventi e istituti religiosi. Di ognuno di essi annotò accuratamente in codice i veri nomi accanto a quelli falsi, collocando poi le liste in contenitori di vetro, che nascose sotto terra. Sperava in tal modo di potere riunire i bambini, un giorno, ai genitori o, almeno, a qualche membro delle loro famiglie. Il 20 ottobre del 1943 Jolanta fu scoperta e arrestata dalla Gestapo. Condotta nella famigerata prigione di Pawiak, fu ripetutamente torturata. Le spezzarono i piedi e le gambe, ma non tradì l’organizzazione, né rivelò gli indirizzi dei bambini nascosti. Condannata a morte, fu salvata all’ultimo minuto, quando membri della Żegota  riuscirono a corrompere le guardie che l’avevano in custodia e sottrarla così all’esecuzione. Dopo la gu12 IRENA SENDLER.jpgerra visse un’esistenza normale, tornò al suo vecchio lavoro, si sposò nuovamente, ebbe tre figli, restando in ogni caso in contatto con alcuni dei bambini che aveva salvato. Nel 1965 ricevette il titolo di Giusta tra le nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme.  In una lettera al Senato del suo Paese, che, più tardi, le attribuì un premio, scrisse: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto e con l’aiuto di tutti i meravigliosi messaggeri che oggi non ci sono più, è ciò che giustifica la mia esistenza sulla terra più di ogni possibile onorificenza”. In un’altra occasione ebbe a dichiarare: “Avrei potuto fare di più. Questo rammarico mi seguirà fin o alla morte”.  Aveva salvato solo 2500 bambini. Era stata torturata e aveva rischiato solo la morte. Irena Sandler è morta a Varsavia il 12 maggio 2008.

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.8, 26-40; Salmo 66; Vangelo di Giovanni, cap.6, 44-51.

 

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

 

Bene, noi ci si congeda qui. Con un brano del discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace, pronunciato da Elie Wiesel, il 10 dicembre 1986. Ci sembra abbia a che vedere con la storia di Irena Sandler e con il farsi pane e il darsi da mangiare che è Gesù. Ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

C’è così tanta ingiustizia e sofferenza che reclama la nostra attenzione: vittime della fame, del razzismo e delle persecuzioni politiche, scrittori e poeti, prigionieri in così tante terre, governate da regimi tanto di destra come di sinistra. I diritti umani sono violati in ogni continente. Ci sono più persone oppresse che libere. Come si può non essere sensibili alla loro situazione? La sofferenza umana di un qualunque luogo riguarda gli uomini e le donne di ogni luogo. Questo si applica anche ai Palestinesi, alla cui situazione sono sensibile, ma i cui metodi, quando conducono alla violenza, deploro. La violenza non è la risposta. Il terrorismo è la più pericolosa delle risposte. Essi sono frustrati e questo è del tutto comprensibile, qualcosa deve essere fatto. I rifugiati e la loro miseria. I bambini e la loro paura. Gli sradicati e la loro disperazione. Qualcosa bisogna fare per la loro situazione. Sia gli ebrei che i palestinesi hanno già perso troppi figli e figlie ed hanno già versato troppo sangue. Questo deve finire ed ogni tentativo per porvi termine deve essere incoraggiato.  […] C’è troppo che si deve fare. C’è troppo che si può fare. Una sola persona –  un Raoul Wallenberg, un Albert Schweitzer, un Martin Luther King, Jr. – una sola persona integra può fare la differenza, una differenza di vita e di morte. Finché un dissidente sarà in prigione, la nostra libertà non sarà vera. Finché un bambino avrà fame, la nostra vita sarà colma di angoscia e di vergogna. Ciò di cui tutte queste vittime hanno bisogno è soprattutto sapere che non solo sole; che noi non le dimentichiamo, che quando le loro voci sono soffocate, noi prestiamo loro le nostre; che mentre la loro libertà dipende dalla nostra, la qualità della nostra libertà dipende dalla loro. […]  Noi sappiamo che ogni momento è un momento di grazia, ogni ora un’offerta; non condividerle significherebbe tradirle. Le nostre vite non appartengono più soltanto a noi; appartengono a tutti coloro che hanno disperatamente bisogno di noi (Elie Wiesel, The Nobel Acceptance Speech).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Maggio 2011ultima modifica: 2011-05-12T22:36:00+02:00da fraternidade
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