Giorno per giorno – 19 Febbraio 2011

Carissimi,

“Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo! E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (Mc 9, 7-8). Nei vangeli di questi ultimi giorni si viene precisando il “chi è” di Gesù. Anzitutto, nella confessione di Pietro, il Messia atteso, che libererà il suo popolo, poi, nelle parole dello stesso Gesù, il Figlio dell’uomo che “deve” soffrire ed essere riprovato e venire ucciso, e qui, nel solenne riconoscimento del Padre, il Figlio prediletto.  Ora, il Figlio prediletto del Padre, ovvero la sua più vera immagine nel mondo, è proprio quello che Gesù ha scelto di essere, vita sacrificata e offerta in dono. Per un momento Pietro, Giacomo e Giovanni riescono a veder rifulgere in essa la verità che dev’essere ascoltata, seguita, adorata. Da allora, però, è chiesto anche a noi di riconoscerne la presenza salvifica (che ci converte e libera) nel corpo piagato dell’umanità che porta su di sé le conseguenze del peccato del mondo, cioè della smania di dominio e di arricchimento di molti, dell’indifferenza, della connivenza, della viltà dei più, e dell’egoismo che ne è, in un caso e nell’altro, alla radice. Davanti a quell’umanità, ci dicevamo stamattina, dovremmo poter pronunciare con accenti di uguale verità, il “Mio Signore e mio Dio” di Tommaso. Ci riusciremo a farlo e a viverlo davvero?   

 

Oggi ricordiamo Sirio Politi, preteoperaio; José Antônio Pereira Ibiapina, apostolo del Nordeste brasiliano, e  Rabbi Elimelech di Lisensk , mistico ebreo.

 

19 SIRIO POLITI.jpgSirio Politi era nato a Capezzano Pianore, in quel di Lucca, da una famiglia povera e a quattordici anni era entrato in seminario. Ordinato prete nel 1943, divenne due anni più tardi parroco di Bargecchia. E ci restò una decina d’anni, finché lo Spirito gli deve aver sussurrato: ehi, amico, datti una mossa! E lui, era il 1956, scese a valle, con una idea: “essere uno di loro”.  Loro erano gli operai. I tempi, poi, mica si scherzava. Per il divorzio maturato nel tempo tra la chiesa e la classe operaia e il clima di sospetto e  le reciproche diffidenze che ne erano scaturite. Lui comunque sarebbe riuscito ad abbattere il muro e, condividendone la fatica e le lotte, a conquistare l’amicizia, la lealtà e la fedeltà dei nuovi compagni. Durò solo tre anni, per via della durezza di testa e di cuore che Gesù da sempre rimprovera alla sua chiesa.  Per restare prete, dovette lasciare la fabbrica. Di quel momento scriverà: “Mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio Lei”. Continuò invece a vivere, dove aveva preso ad abitare, alla Darsena di Viareggio, non più operaio, ma scaricatore di porto, per i successivi sei anni. Dal 1965 creò con altri preti operai, uomini e donne, una nuova esperienza comunitaria alla periferia della città, tornando in Darsena nei primi anni settanta. Lì si impegnerà sempre più sul fronte della pace, della nonviolenza, della lotta antinucleare. Dall’estate 1986, l’ultima sfida, quella della malattia che lo porterà alla morte, il 19 febbraio 1988.    

 

19 IBIAPINA.jpgJosé Antônio Pereira Ibiapina nacque il 5 agosto 1806 a Sobral, nello Stato di Ceará. Ancora giovane, desiderando diventare prete,  si era trasferito a Olinda (Pernambuco), per frequentare il seminario, ma una serie di tragedie familiari (la morte della madre, l’omicidio del fratello maggiore e la fucilazione del padre per motivi politici) lo costrinsero a fare ritorno a casa per prendersi cura della famiglia.  Risolti i problemi più urgenti, fece ritorno nel Pernambuco con due delle sorelle minori. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi nel 1832. Negli anni successivi fu prima magistrato, poi deputato e infine avvocato. Ed ebbe sempre a cuore la causa dei più poveri e sfruttati. Nel 1850, la svolta decisiva della sua vita: si disfece di tutti i suoi beni e andò ad abitare in una casetta in un bairro di Recife, dove passò tre anni a studiare, pregare, meditare, vivendo in povertà. Il 26 luglio 1853, Ibiapina veniva ordinato sacerdote. Insegnò per qualche tempo in seminario, poi con il permesso del suo vescovo, cominciò a viaggiare attraverso tutto il Nordeste brasiliano, realizzando missioni popolari, coscientizzando e organizzando la popolazione, costruendo chiese, ospedali, bacini idrici, e soprattutto moltissime case di carità, dove l’infanzia abbandonata potesse crescere, studiare e apprendere una professione. Padre Ibiapina morì a Santa Fé, nello stato di Paraiba, il 19 febbraio 1883.  

 

19 Tomba di Rabbi Elimelek.jpgRabbi Elimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità.  Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech,  alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne  capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.   

 

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Lettera agli Ebrei, cap.11, 1-7; Salmo 145; Vangelo di Marco, cap.9, 2-13.

 

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

 

Hanno scritto che la scintilla della “rivoluzione dei gelsomini”, in Tunisia,  è stata il sacrificio di un giovane venditore ambulante, il  ventisettenne Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco, a Sidi Bouzid,  il 17 dicembre scorso, per protesta contro le molestie subite dalla polizia, e che è morto il 4 gennaio, dopo una lunga agonia. In un articolo di Jacopo Fo leggiamo che “la spallata definitiva al regime egiziano non l’ha data la forza delle armi, l’ha data Wael Ghonim, dirigente di Google, che dopo 10 giorni di prigione scoppia a piangere in diretta tv, appoggiando la testa sul tavolo, al ricordo degli orrori che ha subito e visto nel carcere della polizia segreta. Lui è scoppiato a piangere, poi s’è alzato e ha abbandonato la trasmissione. E milioni, tra quelli che fino a quel momento erano restati a guardare, hanno detto: “Questo è troppo, non lo posso sopportare”. E la folla che è scesa per strada ha travolto gli argini della dittatura”. 19 nourredine adnane.jpgNoureddine Adnane, Franco per gli amici, ventisettenne marocchino, venditore ambulante a Palermo, sposato con Atika, ventun anni, e padre di una bambina di due, Khadija, nel vostro paese con regolare permesso di soggiorno dal 2002, è morto stamattina,  alle 11. Si era dato fuoco il 10 febbraio, per protesta contro le vessazioni e angherie cui da tempo lo sottoponevano alcuni codardi nascosti sotto la divisa dei vigili della sua città. Noi crediamo che la capacità di indignarsi sia uno dei misuratori più veri del grado di civiltà di individui e popolazioni. Speriamo che il vostro Paese la sappia manifestare adeguatamente.

 

Per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di don Sirio Politi, tratto da un articolo apparso col titolo Riscoprire la lotta” in “Lotta come Amore” dell’ottobre 1987. Ci pare di straordinaria attualità ed è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Concretamente, oggi, qui da noi, nella nostra realtà personale e collettiva, di cittadini e cristiani, cosa vuol dire “lotta” e dove e come è possibile e doveroso lottare? La risposta, è evidente, non può che essere complessa e particolarmente impegnativa. Ma può essere anche molto semplice, ovvia, per chi vuole, ha bisogno vitale di non arrendersi a discrezione del “nemico”. Perché la lotta è anche tentativo di non affogare, di non essere travolti dalla violenza delle acque del fiume e del mare aperto capace di tutto inghiottire. Sopravvivere oggi, nella realtà del mondo nel quale viviamo, non è miracolo di poco conto. Sopravvivere, s’intende, come uomini liberi, dove la libertà è possedere una propria identità personale e cioè pensieri che nascano dal se stesso, ideali raccolti nel cuore, trasparente possibilità di traduzione concreta di progetti sognati in fondo all’anima, il non rischiare con la necessità di essere venduti o comprati a prezzo sonante da questo o quel personaggio dalla voglia di accumular quattrini o dal prurito di carriere più o meno politicizzate… Ma l’esemplificazione del come è possibile perdere se stessi e cioè la propria verità e autenticità, è equivalente all’inesauribilità dei tentativi e dei mezzi a disposizione per la sopraffazione, lo sfruttamento, la strumentalizzazione, di cui il “progresso”, la civiltà di questo nostro tempo, sovrabbonda. Non arrendersi a questa “civiltà” così sottilmente e violentemente ravvolgente e coinvolgente, è già lotta e realmente nel concreto lotta dura, logorante. Tutto un rapporto di resistenza e non soltanto passiva ma attiva, capace cioè d’inventare e di render vita vissuta, una alternativa di pensiero, di cultura, di esistenza diversa e nuova, questa resistenza è lotta, spesso conflittuata, sempre cocciutaggine di convincimento assoluto, identificabile con il se stesso, con la spiegazione della propria vita. Di questa lotta il cristiano (la Chiesa) dovrebbe essere esemplificazione, riferimento visibile, come “la città situata sulla cima della montagna”, direbbe Gesù o come “la luce accesa da illuminare tutta lo casa” direbbe ancora. Perché il Cristianesimo è progetto di umanità immaginato dal Cuore di Dio e “fatto carne” e storia in Gesù Cristo. È’ chiaro che non può andare d’accordo con il “mondo”. Perché il Cristianesimo (e quindi la Chiesa) di per se stesso, per natura sua e per l’essenzialità della sua missione nella storia dell’umanità, è una lotta. Una lotta di respinta. Una lotta di resistenza. Una lotta per l’alternativa. Una lotta implacabile come è implacabile l’amore. Una lotta che coinvolge il Cielo e la Terra come il Mistero di Dio. (Sirio Politi, Riscoprire la lotta).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Febbraio 2011ultima modifica: 2011-02-19T23:11:00+01:00da fraternidade
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