Giorno per giorno – 13 Febbraio 2011

Carissimi,

“Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20). Che, come ci diciamo sempre, non equivale ad andare in paradiso. È, invece, molto di più: vivere già, qui ed ora, le “impossibili” relazioni nuove che l’evento di Gesù rende “possibili” nella storia. Questa, ci dicevamo stamattina, è forse la pagina di Vangelo (con il seguito che le terrà dietro domenica prossima) più affascinante e più disattesa. Ma, poi, ci siamo corretti, in realtà, affascinante e disattesa, lo è ogni pagina del Vangelo. Se fosse diverso, non ci troveremmo al punto in cui siamo. Ora, nel Vangelo di oggi, si parla di giustizia. E già questo rischia di portarci fuori pista. Perché noi si ha in mente, da sempre, l’idea di giustizia retributiva, quella per cui il male attira il male, il bene il bene, un delitto merita il castigo, la buona azione il premio. Mentre Gesù, con buona pace del padre Dante, non è interessato a questo. La giustizia, in primo luogo quella di Dio, e, per conseguenza la nostra, di figli del Regno, non è la dikaiosyne greca, ma è la sedaqa ebraica, ossia la fedeltà di Dio alla sua promessa di salvezza (cioè, di vita piena) per tutti, compresi i peccatori, che noi siamo invitati a coniugare storicamente. Ma, per far questo, dobbiamo andare alle radici nascoste di ciò che ci si agita in cuore. Non basterà allora mai, semplicemente, “non uccidere”, ma si tratterà di lavorare per estirpare da noi l’intenzione oggettivamente omicida espressa dall’ira, dall’odio, dal disprezzo che noi si possa nutrire nei confronti di qualcuno. Perché, senza far questo, non nasce la società riconciliata, che è la sola legittima manifestazione del progetto del Padre. Quella che Gesù aveva ricompreso, all’inizio del suo discorso, nella beatitudine dei miti, “che erediteranno la terra” (Mt 5, 5). Quando, lo sa Dio, ma verrà il tempo. E noi, nel nostro piccolo, possiamo già offrirne certo parziali, ma significative, anticipazioni. Leggendo, più avanti, sempre nel Vangelo di oggi, il passo che dice: Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello…” (Mt 5, 23-24), ci è venuto in mente che, se lo chiede a noi, è forse perché anche Dio fa così, Lui per primo. E quanti deve averne Dio che, a torto o a ragione (no, questa è una bestemmia, ma ci è scappata), hanno qualcosa contro Lui. Non per colpa sua, ma nostra. Ed allora che deve fare, se non scendere di soqquatto dal cielo o uscirsene dalle nostre chiese, dove noi ce ne stiamo [sempre meno] inginocchiati ad adorarlo, e andare a cercare coloro per i quali abbiamo reso nulle le sue promesse e le sue benedizioni? E inginocchiarsi Lui da loro e chiedergli scusa. E solo dopo che l’avranno perdonato, tornarsene in cielo, o in chiesa a sorbirsi le nostre preghiere di incalliti negatori della sua giustizia. Ma, tornando a noi, davvero ci rifiuteremo di dargli una mano, ci negheremo alla sua sete di pace, rinunceremo a farci strumento dell’affermazione del suo significato nel mondo, scegliendo di continuare ad essere figli di Caino? Cantando, magari, i suoi inni, recitando le sue preghiere, partecipando alle sue liturgie? Ci vorrà del gran fegato!

 

Bene, i testi che la liturgia di questa 6ª Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Libro del Siracide, cap.15, 16-21; Salmo 119; 1ª Lettera ai Corinzi, cap.2, 6-10; Vangelo di Matteo, cap.5, 17-37.

 

La preghiera della domenica è, come sempre in comunione con le chiese cristiane di tutte le denominazioni.

 

Il calendario ci porta oggi la memoria di  Santiago Miller, martire in Guatemala.

 

13 SANTIAGO MILLER.jpgJames Alfred Miller era un religioso lassalliano, originario degli Stati Uniti. Nato a Stevens Point, Wisconsin, il 21 settembre 1944, primogenito di Arnold e Lorraine Miller, James era entrato nell’agosto 1962 nel noviziato dei Fratelli delle Scuole cristiane e aveva emesso i suoi primi voti religiosi l’anno successivo, il 31 agosto. Dopo aver completato il ciclo di studi e aver insegnato alcuni anni in patria, fu inviato nel 1971 in Nicaragua, dove restò quasi dieci anni, insegnando nelle scuole di Bluefields, Waspam e Puerto Cabezas. Rientrato negli Stati Uniti nel 1980, vi si trattenne un anno, ripartendo l’anno successivo questa volta per il Guatemanla, come professore del Collegio de La Salle e direttore dell’Istituto Indigenista. Allegro, amabile e totalmente dedito alla sua gente, non trovava mai tempo per sé. Huehuetenango era una comunità povera e bisognosa, ma anche seriamente impegnata nella lotta per la giustizia. Nel dicembre del 1981, durante un viaggio negli Stati Uniti, per quella che sarebbe stata l’ultima breve visita alla famiglia e per sottoporsi ad una chirurgia al ginocchio, Miller denunciò le condizioni disumane in cui viveva la sua gente: scuole fatiscenti, bambini senza di che vestire, pacifici padri di famiglia assassinati mentre erano al lavoro nei campi, studenti rapiti dai militari e fatti sparire. Poche settimane dopo il suo rientro in Guatemala, il 13 febbraio 1982, quattro uomini armati invasero la scuola e lo uccisero a bruciapelo. Aveva 37 anni di età, venti di vita religiosa.

 

“La manifestazione di oggi è stata molto, molto bella. Peccato solo che pioveva e, dato che qui fa ancora piuttosto freddo, non è stato piacevole stare fradici in piedi per ore a piazza Castello. Ma ha avuto la meglio la gioia di essere tra migliaia e migliaia di persone (secondo la mia collaudata esperienza eravamo in centomila) e tutti, giovani, anziani, famiglie con bambini di ogni età, siamo stati molto attenti agli interventi e abbiamo applaudito, urlato, ballato ed eravamo felici perché davvero tanti. E belli. […] I temi principali sono stati: l’affermazione che la donna non è quella che ci viene propinata, ma un valore e un bene per tutta la società, la voglia di cambiamento e di futuro, la richiesta di dimissioni del premier, lo spazio e le prospettive per i giovani, il lavoro… e tanta tanta voglia di tornare alla civiltà e di novità che possono nascere solo dal dialogo. Infatti quella stessa piazza è stato un bell’esempio perché gli oratori, pur di diverso orientamento, sono stati ascoltati tutti con molto interesse ed applauditi per quello che dicevano indipendentemente dal resto”. Ce lo scrive stasera Giusi di Milano, raccontandoci una delle duecento piazze, in  cui si sono date appuntamento le donne d’Italia, e i loro amici e compagni, piccoli e grandi. Una sorta di versione laica dell’invito evangelico di oggi: “Se dunque ti ricordi che qualcuno ha qualcosa contro di te…”, lascia il tuo “particolare”, e vai prima a riconciliarti con lui. E, in questo caso, si tratta di un intero paese offeso e tradito nelle sue attese, a cui c’è bisogno di porgere la mano. Per aprire un nuovo cammino. Auguri, Italia!  

 

É tutto, per stasera. Moi ci congediamo qui, lasciandovi ad una citazione di Jon Sobrino, tratta dal suo libro “Gesù Cristo liberatore” (Cittadella), che è, per oggi, il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

La libertà di Gesù non va primariamente intesa in base all’odierno ideale “liberale” di libertà, in relazione all’esercizio dei propri diritti; nemmeno si può concepire la sua libertà in senso esistenzialistico, come un realizzarsi dell’umano in forma estetica. […]  La libertà è qualcosa di assai più profondo: non vi sono barriere né limiti quando si tratta di fare il bene. È la libertà in funzione del bene altrui, libertà davvero qui senza limiti né ostacoli quali l’opinione sociale, i successi o gli insuccessi, neppure la legge e il sabato. La libertà di Gesù è allora paradossalmente libertà di “rendersi schiavo” per fare il bene. Come si esprimerà Paolo – il grande difensore della libertà -: “Mi sono fatto schiavo di tutti per salvare quanti più posso” (1Cor 9, 19). Il punto culminante di tale libertà di Gesù appare dunque, quale l’ha recepito Giovanni, nel libero sacrificio della propria vita: “Nessuno me la toglie, ma la offro di mia volontà” (Gv 10, 18). Si tratta di una libertà fatta schiava – ci si permetta il paradosso – perché è una libertà al servizio della bontà, non al servizio dello stesso Gesù. Da qui si può capire meglio dove affondi le sue radici la libertà di Gesù: nella bontà di Dio. Non perché sia un liberale ma perché è misericordioso come il Padre celeste, Gesù antepone la guarigione di un uomo dalla mano arida alla legge del sabato e giustifica il proprio operato con questo argomento disarmante: “È lecito in giorno di sabato fare il bene invece che il male?” (Mc 3, 4). La bontà di Dio è quella che libera disponendo alla bontà, così facendo libera l’uomo dal proprio io. L’uomo libero è colui che viene prima liberato; è questa l’immagine offerta da Gesù. “Amati per amare” potrebbe essere la nuova interpretazione della prima lettera di Giovanni (1Gv 4, 11). “Liberi per amare” come si espresse G. Gutiérrez. “Liberato per liberare” potrebbe essere la definizione di Gesù libero. L’esperienza della bontà di Dio è quella che libera Gesù e lo fa libero. Gesù esercita quindi la sua libertà in vista della bontà. Sta qui – ci sembra – la radice e il significato della libertà di Gesù. Sta qui pure l’approfondimento del significato della bontà di Dio come forza creatrice di libertà.  (Jon Sobrino, Gesù Cristo liberatore).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro. 

Giorno per giorno – 13 Febbraio 2011ultima modifica: 2011-02-13T22:39:00+01:00da fraternidade
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