Giorno per giorno – 19 Febbraio 2010

Carissimi,

“Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno” (Mt 9,  15). Uno dei segni della Sua presenza nel mondo dovrebbe essere lo stare della chiesa tra i poveri. O anche, e ci pare la stessa cosa, lo stare dei poveri nella chiesa. Al centro di essa. Che, qua e là, si trova ancora, ed è segnale perciò che lo sposo è con noi, e noi si può solo, come allora, far festa. Ma, aguzzando lo sguardo sullo stato della sposa, pare sempre più di scoprirla vedova di Lui, che se n’è andato o è stato mandato altrove. Allora, se siamo davvero suoi amici e amiche, è tempo di digiuno e di lutto. Tempo di lasciare gli abiti della festa, di vestire dimessi, di fare silenzio, di cominciare a testimoniare noi, nella nostra vita, la bellezza di ciò che significava Lui-con-noi e la tristezza del vuoto che ha lasciato. Scomunicarci per una volta tutti, dal papa in giù. Dire, negandoci i segni che ne affermano la presenza, che Lui non c’è più. O che noi l’abbiamo ucciso. E non si può pensare di fare dell’Eucaristia un teatrino. Noi si ricorda di un monaco, il vecchio Pedro, che, per una riconciliazione mancata, scomunicò per un’intera giornata tutto un monastero, lasciandolo senza Eucaristia. Fu un gesto più eloquente di qualsiasi predica o di ogni altra punizione. Quante chiese invece distribuiscono spensieratamente ostie in cui Lui non c’è già più a gente che neppure ricorda, sempre che un giorno qualcuno si sia preoccupato di insegnarglielo, che cosa Lui significhi, pronta, uscita di là, a calpestarlo nel suo sacramento più vero: i poveri, appunto. 

Ormai noi ‘pretioperai’ siamo estinti. Né i tempi ecclesiali ed ecclesiastici ci fanno sperare che le gerarchie o il laicato devoto abbiano il coraggio profetico di incoraggiare un qualche percorso simile di incarnazione di qualche presbitero nella sofferta e stupenda storia sacra del lavoro manuale dipendente. Ora sono pensionato e, come per 26 anni, anche oggi vivo col frutto del mio lavoro e non con i proventi del sacro o delle offerte delle vedove. Anzi, ne condivido abbondante parte con la mia gente e la mia parrocchia.  Il lavoro e la compagnia degli uomini e  delle donne – con cui ho condiviso un terzo delle mie giornate – sono stati un’immeritata grazia di Dio, una impagabile risorsa umana, un laboratorio di fede, di umanizzazione e sapienza. Oggi vedo in giro preti e pretini angelici, pastorali stanche e ripetitive, parrocchie clericali come prima e più di prima. La notte è ancora al principio e il tempo pare fermato. So che morirò senza che il tempo si rimetta in moto, che la notte avanzi fino a far sperare l’alba vicina. Ma Sirio non va dimenticato perché talvolta il nostro futuro sta nel cercare nelle ceneri del passato la brace che cova per riaccendere il futuro”. Ce lo scrive il nostro amico don Augusto, ricordando don Sirio, di cui si fa memoria oggi. Tempo, anche per questo, di lutto, tempo di digiuno.

 

Oggi, dunque,  ricordiamo Sirio Politi, preteoperaio; José Antônio Pereira Ibiapina, apostolo del Nordeste brasiliano, e  Rabbi Elimelech di Lisensk , mistico ebreo.

 

19 SIRIO POLITI.jpgSirio Politi era nato a Capezzano Pianore, in quel di Lucca, da una famiglia povera e a quattordici anni era entrato in seminario. Ordinato prete nel 1943, divenne due anni più tardi parroco di Bargecchia. E ci restò una decina d’anni, finché lo Spirito gli deve aver sussurrato: ehi, amico, datti una mossa! E lui, era il 1956, scese a valle, con una idea: “essere uno di loro”.  Loro erano gli operai. I tempi, poi, mica si scherzava. Per il divorzio maturato nel tempo tra la chiesa e la classe operaia e il clima di sospetto e  le reciproche diffidenze che ne erano scaturite. Lui comunque sarebbe riuscito ad abbattere il muro e, condividendone la fatica e le lotte, a conquistare l’amicizia, la lealtà e la fedeltà dei nuovi compagni. Durò solo tre anni, per via della durezza di testa e di cuore che Gesù da sempre rimprovera alla sua chiesa.  Per restare prete, dovette lasciare la fabbrica. Di quel momento scriverà: “Mi si scavò nell’anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito finito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio Lei”. Continuò invece a vivere, dove aveva preso ad abitare, alla Darsena di Viareggio, non più operaio, ma scaricatore di porto, per i successivi sei anni. Dal 1965 creò con altri preti operai, uomini e donne, una nuova esperienza comunitaria alla periferia della città, tornando in Darsena nei primi anni settanta. Lì si impegnerà sempre più sul fronte della pace, della nonviolenza, della lotta antinucleare. Dall’estate 1986, l’ultima sfida, quella della malattia che lo porterà alla morte, il 19 febbraio 1988.    

 

19 IBIAPINA.jpgJosé Antônio Pereira Ibiapina nacque il 5 agosto 1806 a Sobral, nello Stato di Ceará. Ancora giovane, desiderando diventare prete,  si era trasferito a Olinda (Pernambuco), per frequentare il seminario, ma una serie di tragedie familiari (la morte della madre, l’omicidio del fratello maggiore e la fucilazione del padre per motivi politici) lo costrinsero a fare ritorno a casa per prendersi cura della famiglia.  Risolti i problemi più urgenti, fece ritorno nel Pernambuco con due delle sorelle minori. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi nel 1832. Negli anni successivi fu prima magistrato, poi deputato e infine avvocato. Ed ebbe sempre a cuore la causa dei più poveri e sfruttati. Nel 1850, la svolta decisiva della sua vita: si disfece di tutti i suoi beni e andò ad abitare in una casetta in un bairro di Recife, dove passò tre anni a studiare, pregare, meditare, vivendo in povertà. Il 26 luglio 1853, Ibiapina veniva ordinato sacerdote. Insegnò per qualche tempo in seminario, poi con il permesso del suo vescovo, cominciò a viaggiare attraverso tutto il Nordeste brasiliano, realizzando missioni popolari, coscientizzando e organizzando la popolazione, costruendo chiese, ospedali, bacini idrici, e soprattutto moltissime case di carità, dove l’infanzia abbandonata potesse crescere, studiare e apprendere una professione. Padre Ibiapina morì a Santa Fé, nello stato di Paraiba, il 19 febbraio 1883.  

 

19 Tomba di Rabbi Elimelek.jpgRabbi Elimelech, nato in Galizia (Polonia) nel 1717, era, con il fratello maggiore Sussja, figlio del Rabbi Eliezer Lipman e di sua moglie Miroush, persone conosciute per la loro bontà e generosità.  Insieme, i due fratelli, in gioventù si diedero ad una vita di peregrinazioni senza meta. Poi, le loro strade si divisero: Sussja continuò ad essere l’inquieto ed estatico “folle di Dio”, e Elimelech,  alla scomparsa di Rabbi Dov Bär, il Grande Magghid, divenne  capo della comunità chassidica, facendosi conoscere per la “conoscenza intuitiva delle persone che lo avvicinavano, delle loro manchevolezze e delle loro pene, così come dei mezzi per guarirle”. Nella memoria del popolo, rimase così presente come “il medico delle anime, l’esorcizzatore dei demoni, il consigliere, la guida e il taumaturgo”. Rabbi Elimelech morì a Lisensk il 21 Adar I 5546 (coincidente, quell’anno, con 19 febbraio 1786), lasciando tre figli, Rabbi Elazar di Lisensk, Rabbi Lipa Eliezer di Chemelnick, Rabbi Yaakov di Maglanitza e due figlie, Esther Etil e Mirish.   

 

I testi che la liturgia del giorno propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Profezia di Isaia, cap,58, 1-9; Salmo 51; Vangelo di Matteo, cap.9, 14-15.

 

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia. 

 

Noi ci si congeda qui. Con un testo di don Sirio Politi, tratto da “Lotta come Amore” dell’ottobre 1987. Che è per oggi il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Sopravvivere oggi, nella realtà del mondo nel quale viviamo, non è miracolo di poco conto. Sopravvivere, s’intende, come uomini liberi, dove la libertà è possedere una propria identità personale e cioè pensieri che nascano dal se stesso, ideali raccolti nel cuore, trasparente possibilità di traduzione concreta di progetti sognati in fondo all’anima, il non rischiare con la necessità di essere venduti o comprati a prezzo sonante da questo o quel personaggio dalla voglia di accumular quattrini o dal prurito di carriere più o meno politicizzate… Ma l’esemplificazione del come è possibile perdere se stessi e cioè la propria verità e autenticità, è equivalente all’inesauribilità dei tentativi e dei mezzi a disposizione per la sopraffazione, lo sfruttamento, la strumentalizzazione, di cui il “progresso”, la civiltà di questo nostro tempo, sovrabbonda. Non arrendersi a questa “civiltà” così sottilmente e violentemente ravvolgente e coinvolgente, è già lotta e realmente nel concreto lotta dura, logorante. Tutto un rapporto di resistenza e non soltanto passiva ma attiva, capace cioè d’inventare e di render vita vissuta, una alternativa di pensiero, di cultura, di esistenza diversa e nuova, questa resistenza è lotta, spesso conflittuata, sempre cocciutaggine di convincimento assoluto, identificabile con il se stesso, con la spiegazione della propria vita. Di questa lotta il cristiano (la Chiesa) dovrebbe essere esemplificazione, riferimento visibile, come “la città situata sulla cima della montagna”, direbbe Gesù o come “la luce accesa da illuminare tutta lo casa” direbbe ancora. Perché il Cristianesimo è progetto di umanità immaginato dal Cuore di Dio e “fatto carne” e storia in Gesù Cristo. È chiaro che non può andare d’accordo con il “mondo”. Perché il Cristianesimo (e quindi la Chiesa) di per se stesso, per natura sua e per l’essenzialità della sua missione nella storia dell’umanità, è una lotta. Una lotta di respinta. Una lotta di resistenza. Una lotta per l’alternativa. Una lotta implacabile come è implacabile l’amore. Una lotta che coinvolge il Cielo e la Terra come il Mistero di Dio. (Sirio Politi, da Lotta come Amore, ottobre 1987).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Febbraio 2010ultima modifica: 2010-02-19T23:05:00+01:00da fraternidade
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